1 Agosto 2019

Adolf Hitler nella saggistica storica

Fonte:

Osservatorio antisemitismo

Autore:

Alberto De Antoni

                                                          La grande guerra di Hitler 

    È opinione comune vedere nella Seconda Guerra Mondiale la deflagrazione di tre grandi temi della storia d’Europa: la lotta per l’egemonia politica del continente, un antisemitismo plurisecolare sorto nel tardo Medioevo e riaffiorante con violenza inaudita agli inizi della modernità, la nascita e lo scontro di nazionalismi radicali in seguito alle crisi delle società dell’ancien regime. Queste tre tematiche confluirono tutte però nella persona di Adolf Hitler che diede loro, com’è noto, una carica omicida micidiale. È stato perciò giocoforza obbligatorio per gli studiosi concentrare la propria attenzione sulla biografia del responsabile della grande catastrofe europea del Novecento. Il che, sia detto incidentalmente, ha pure costretto gli storici a rivedere tutte quelle teorie interpretative moderne che vedevano nelle cause sociali e economiche o, più genericamente, nell’immanenza di principi filosofici o metafisici il vero motore della storia. La conoscenza della biografia di Adolf Hitler è perciò fondamentale per la comprensione degli eventi della Seconda Guerra Mondiale, ancor di più per lo studio della Shoah poiché, come è stato detto, “No Hitler, no Shoah”.

    Il problema maggiore, però, nello scrivere di Hitler, consiste nel fatto che ci si imbatte nella vita di un uomo che sembra essere stata una sorta di negazione di tutto ciò che costituisce un essere umano, una «non persona» come ha scritto a buon diritto Joachim Fest in uno dei primi studi biografici (Hitler, Rizzoli 1974). Lo stesso Stalin, che pure può essere accostato tranquillamente al dittatore tedesco per i tratti del potere assoluto, della paranoia, della crudeltà e della violenza, rivelava talvolta il lato del marito, del padre e del capofamiglia nonché debolezze comportamentali, come il disagio della bassa statura o gli eccessi a tavola ad es., che potrebbero appartenere a ciascun uomo. Il lato pubblico e storico, invece, rappresenta l’unico dato biografico di Hitler: a parte i pochi tratti anagrafici e episodici dei primi trent’anni di vita – di cui si dirà oltre – la sua vita politica è tutto ciò che si conosce con certezza, oltretutto tramite una mole di documentazione che crea forse più ostacolo che ausilio per lo studioso. Ad es, la sola raccolta dei discorsi e delle dichiarazione pubbliche relative al periodo 1925-1933 (Reden, Schriften, Anordnungen: Februar 1925 bis Januar 1933, a cura dell’Institut für Zeitgeschichte di Monaco, 1992-2003) occupa ben sei volumi divisi in più tomi; infinita la documentazione successiva alla presa del potere che, fino al termine della Seconda Guerra Mondiale, coincide con la stessa storia della Germania. Impossibile, perciò, avere un controllo assoluto della materia da parte dello storico senza operare una scelta che non si riveli un’interpretazione.

   A ragione di ciò sono occorsi alcuni decenni prima che si arrivasse a una “sistematizzazione” definitiva dell’affaire Hitler con il relativamente recente studio di Ian Kershaw (Hitler: 1889-1936, e Hitler: 1936-1945, Bompiani 1999 e 2001), un autore che, oltre all’esposizione evenemenziale e una padronanza completa della documentazione, ha inserito lo sviluppo dei fatti complementariamente alla descrizione della personalità del dittatore senza però cadere nel ritratto psicologico o psicanalitico spicciolo. Si tratta di un ottimo lavoro, ma si tratta anche di un prodotto della scuola storiografica anglo-sassone che, come di consueto molto pragmatica, già nell’immediato dopoguerra aveva inserito Hitler nel novero delle dittature della storia descrivendolo, sulla base del materiale documentario emerso dal processo di Norimberga, come un essere assolutamente amorale, un avventuriero disposto a tutto, un criminale senza principi – in altre parole, una di quelle personalità che sorgono e si affermano nei momenti storici di grande crisi (Alan Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Mondadori 1955). Su questa scia si è poi espresso Norman Cohn autore di un testo (I fanatici dell’Apocalisse, ed. di Comunità 1965), giustamente celebre per erudizione e metodologia, che ha inserito il nazismo (e il bolscevismo) in uno scenario storico costantemente agitato dalla presenza di gruppi settari di individui dediti alla violenza e al nichilismo più radicale indipendentemente dal credo religioso o ideologico. Lo stigma di setta millenaristica è stato quindi applicato al nazismo dalla monografia di James M. Rhodes, The Hitler Movement. A Modern Millenarian Revolution, Stanford Calif. 1980. Bullock ha di seguito confermato in un lavoro successivo il proprio giudizio alla luce della comparazione con l’altro grande dittatore del Novecento (Hitler e Stalin. Vite parallele, Garzanti 1995; un’aggiornata rielaborazione del paragone in Richard J. Overy, The Dictators. Hitler’s Germany and Stalin’s Russia, London – New York 2004, più interessato però alle strutture statali). Tale impostazione, peraltro, è stata anche estesa in terra anglo-sassone alla stessa Shoah – che è stata davvero un unicum nella storia – di recente inserita invece in uno dei tanti drammi terribili dell’umanità (Donald Bloxham, Lo sterminio degli Ebrei. Un genocidio, Einaudi 2010). Non molto ha aggiunto infine l’ambiziosa biografia (Adolf Hitler: the Definitive Biography, New York 1976) dello statunitense John Toland con un titolo che di certo non s’addice alla ricerca storiografica e in particolare all’analisi critica e rigorosa di un evento complesso come quello della Shoah.

    Rimane comunque, comprensibilmente, un forte disagio a trattare della persona di Hitler, frutto della sua unicità biografica e del suo essere diventato un orribile motore della storia a tal punto che, per un ritratto antropologico esaustivo, è più facile ricorre a Hitler, un film dalla Germania (1977) di Hans-Jürgen Syberberg, un’opera cinematografica provocatoria della durata di sette ore nel quale l’individuo – non solo Hitler che pure è il soggetto principale – diventa una sorta di variabile indipendente di forze più grandi della propria volontà e che lo trasformano in una sorta di personalità inesistente creata solo dai grandi eventi e da decisioni che nulla hanno a che fare con la razionalità e con la moralità. Il tutto con una rappresentazione tematica e scenografica che rielabora il passato inconfessabile tedesco con marionette, burattini, attori in carne e ossa che recitano volutamente sopra le righe e in più ruoli, filmati rigorosamente d’epoca, richiami colti alla tradizione culturale europea, passaggi visivi e sonori dei grandi temi della civiltà tedesca. A questo proposito non si può fare a meno di ricordare il giudizio di Goethe in merito al proprio Faust che avrebbe potuto essere rappresentato unicamente in un teatro di burattini, quasi che il confronto col Male più tremendo, proprio per la sua dimensione incomprensibile con i consueti parametri umani, non possa essere concepito unicamente che in una versione distorta, sia essa allegoria, paradosso o caricatura.  Ma, per l’appunto, come si è detto, rimane un’opera provocatoria influenzata dalla grande stagione dell’avanguardia teatrale della repubblica di Weimar.

    Probabilmente una delle più interessanti e recenti ricerche volte alla decifrazione del caso Hitler è quella compiuta dallo statunitense Ron Rosenbaum (Il mistero Hitler, Mondadori 1999), intellettuale ma non storico, che con grande onestà e grande ingenuità ha cercato di trovare la chiave della “persona” Hitler nell’episodio, nella circostanza, nell’influenza di qualche persona o, com’è facile immaginare, nel contesto del disagio psichico dal momento che la sessualità incerta se non malata, l’abuso di medicinali e di sostanze psicotrope e gli evidenti tratti paranoici, manifesti soprattutto nell’ossessione antisemita, autorizzano a muovere la ricerca biografica in tale direzione. Ma si erano già mossi in questo campo e con risultati ben maggiori Frederick C. Redlich (Hitler: Diagnosis of a Destructive Prophet, New York-Oxford 1999), uno dei “grandi vecchi” della Vienna freudiana esule negli Stati Uniti, e Walter C. Langer con studio commissionato dalle autorità militari in tempo di guerra (Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto di guerra, Garzanti 1973). Il curatore della pubblicazione del rapporto avvenuta decenni dopo la sua redazione è stato autore a sua volta di una biografia dal titolo inequivocabile e ben azzeccato (Robert G.L. Waite, The Psychopathic God Adolf Hitler, New York 1977).

   Ma, dopotutto, insistere su un anomalia psichica non consiste in nient’altro che ritornare in un lungo percorso di ricerca iniziato già dai primordi della storia europea, in particolare di quella greca, che con lo Ierone di Senofonte o con la più celebre allegoria del tiranno-lupo della Repubblica di Platone si era soffermato sui tratti anomali delle personalità che occupavano ruoli di potere assoluto. Il nostro secolo avrebbe solamente configurato il carattere della tirannide con maggior specializzazione applicandovi lo stigma della paranoia (cfr., ad es., Luigi Zoja, Paranoia. La follia che fa la storia, Bollati Boringhieri 2011) con la variante, al contrario, di un potere che necessita per definizione di atteggiamenti dai tratti paranoici (cfr., ad es., gli interventi in Paranoia e politica, a cura di S. Forti e M. Revelli, Bollati Boringhieri 2007, o, più limitatamente, W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Liguori 1985). Non si avrebbe nient’altro che del rovesciamento di valore, alla luce di quanto successo nel Novecento, dell’idea ottocentesca, ripresa indubbiamente dal mondo classico, dell’uomo eroico in grado di guidare e dominare gli eventi della storia. La celebre immagine hegeliana dell’Assoluto a cavallo sarebbe stata sostituita da quella del paranoico col carro armato. In quest’ottica di studi anche le analisi dell’infanzia o della famiglia di Hitler (ad es., Bradley F. Smith, Adolf Hitler. His Family, Childhood and Youth, Stanford Cal. 1967; Helm Stierlin, Adolf Hitler. Le influenze della famiglia, NIS 1993; Wolfgang Zdral, La famiglia Hitler, Utet 2006). Ulteriori approfondimenti da parte di specialisti della psicologia hanno probabilmente aggiunto dei tratti suppletivi per l’analisi di una personalità indubbiamente malata, ma ben poco hanno contribuito a spiegare i processi storici. Si vedano, ad es., L.L. Heston, – R. Heston, The Medical Casebook of Adolf Hitler. His Illnesses, Doctors and Drugs, London 1979; D. Henry, Adolf Hitler: a Re-assessment of His Personality Status, in «Irish Journal of Psychological Medicine», 10, 3, 1993, pp. 148-151; F.L. Coolidge, – F.L. Davis, – D.L. Segal, Understanding Madman: a DSM-IV. Assessment of Adolf Hitler, in «Individual Differences Research», 5, 1, 2007, pp. 30-43, e Ph. Hyland, – D. Boduszek, – K. Kielkiewicz, A Psycho-Historical Analysis of Adolf Hitler. The Role of Personality, Psychopathology and Development, in «Psychology & Society», 4, 2, 2011, pp. 58-63.

   A ragione di ciò occupano maggior importanza quei testi che, al di là di ogni considerazione interpretativa del caso Hitler, si sono concentrati piuttosto nell’analisi e nella critica di quei temi di rilevanza storica e storiografica. Si segnalano tra i molti: Werner Maser, Adolf Hitler. Legende Mythos Wirklichkeit, München und Essling 1971, e Adolf Hitler. Das Ende der Führer-Legende, Düsseldorf-Wien 1980; Sebastian Haffner, Il caporale Hitler, Feltrinelli 1979; Guido Knopp, Hitler. Ein Bilanz, Zusammenarbeit mit St. Brauburger, Chr. Deik, R. Güllner, P. Hartl, J. Müllner, Berlin 1993, e Anna Maria Sigmund, Dittatore, demone e demagogo: domande e risposte su Adolf Hitler, Corbaccio 2008. Si tratta di opere tutte meritorie in quanto destinate all’interesse del grande pubblico, prive cioè di quella mole documentaria e cronicistica che spaventerebbe il lettore comune, e destinate a toccare quelli che potrebbero essere considerate le strutture della personalità del dittatore, del suo successo e della sua interazione con i processi storici. Si tratta, però, anche di lavori non provenienti dal mondo accademico in senso stretto, benchè frutto di persone preparate e attive da tempo nel campo della divulgazione e della sintesi storica, importanti però perché provenienti da un mondo tedesco che, com’è comprensibile, ha sempre avvertito un enorme disagio nell’affrontare il caso Hitler nella sua completezza.

   Di un’ultima biografia in corso di pubblicazione (Volker Ullrich, Hitler. Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Fischer Verlag 2013) il giudizio rimane ancora sospeso in attesa della seconda parte, certamente quella più rilevante dal punto di vista dei fatti e ancor più dei crimini; evidente, invece, la sensazione di un’esigenza di storicizzazione definitiva del nazismo da parte della Germania contemporanea. Una medesima operazione, peraltro, era già stata compiuta da Rainer Zitelmann (Hitler, Laterza 1992), con un testo discusso dalla critica e redatto immediatamente a ridosso del crollo del Muro di Berlino, ancor prima cioè che con l’uscita del film “La lista di Schindler” di Spielberg, l’opinione pubblica internazionale comprendesse in pieno l’entità del crimine per eccellenza del nazismo. Certamente importante dovrebbe essere invece il recente lavoro (ancora ignoto all’autore di queste righe) di Peter Longerich, Hitler. Eine Biographie, Munchen 2015, studioso della Germania nazista e della Shoàh, fondatore  della Royal Holloway’s Holocaust Research Centre di Londra e già presente nel campo degli studi biografici con due ottimi lavori: Heinrich Himmler: Biographie, München 2010, e Goebbels: una biografia, Einaudi 2016.

   Permane, dunque, un “caso” Hitler, ma permane anche sorta di errore di fondo che consiste soprattutto nell’accettare l’immagine che lo stesso dittatore e la Germania nazista hanno proiettato nella storia, quella di una sorta di divinità onnipresente e in grado di dominare e di governare ogni realtà dello Stato totalitario. Si tratta in verità di una proiezione risultato di due processi ben distinti: il primo, attivo nel periodo della Germania trionfante, corrispondeva pienamente alla propaganda dai toni messianici del salvatore della Nazione e funzionale alla costruzione dello Stato totalitario; il secondo, divulgato dopo la sconfitta, stornava le responsabilità di ampi settori della società tedesca su una cosiddetta volontà demoniaca di un uomo solo.

   Il lato umano, pur nella sua incompletezza e nella sua imprecisione, affiora invece in quelle memorie scritte da uomini che furono a lui vicini sin dagli inizi o nella lotta finale per la presa del potere nei momenti immediatamente a ridosso della fine della Repubblica di Weimar, come ad es. gli scritti di Gregor Strasser, Hitler segreto. Le rivelazioni del capo del «Fronte Nero», D. De Luigi 1944, e    The Gangsters around Hitler, with a Topical Postscript “Nazi Gangsters in South America”, London s.d., che insieme al fratello Otto, assassinato nella “Notte dei lunghi coltelli”, era stato uno dei fondatori e dei dirigenti del partito nazista; o le memorie del fondatore della Gestapo Rudolf Diels, uomo di Goering e successivamente esautorato da Himmler, Lucifer ante portas; zwischen Severing und Heydrich, Zürich 1949, o la biografia di Hans Bernd Gisevius, Adolf Hitler: eine Biographie. Versuch einer Deutung; München 1963, vicino all’Abwehr di Canaris e successivamente alla Resistenza tedesca. Si tratta comunque di opere da leggere anche con cautela poiché scritte da uomini esautorati dai centri di potere e scritte tempo dopo gli avvenimenti narrati con l’evidente scopo di allontanarsi dalla grande catastrofe della storia tedesca. Ci si domanda, infatti, se fossero riusciti ad affermarsi nella lotta per il potere tra i vari satrapi nazisti e se avessero ricoperto posizioni di responsabilità, come si sarebbero comportati. Ad es., Gisevius scrisse anche una biografia del suo amico Arthur Nebe (Wo ist Nebe? Erinnerungen an Hitlers Reichskriminaldirektor; Zürich 1966), condannato a morte per la sua partecipazione all’attentato fallito del 20 luglio, senza però ricordare la sua partecipazione, come comandante di uno degli Einsatzgruppen, agli spaventosi eccidi antiebraici commessi in Unione Sovietica.

    L’unico, forse, che potrebbe meritare considerazione, è Hermann Rauschning, politico conservatore prussiano inizialmente vicino al nazismo, quindi dissidente, successivamente in aperta rottura e profugo all’estero, sulla cui attendibilità la critica ha sempre mantenuto una certa diffidenza (una biografia in Marek Andrzejewski, Hermann Rauschning – Homme politique et publiciste, in «Acta Poloniae Historica», 61, 1990; con cautela Theodor Schieder, Hermann Rauschnings “Gespräche mit Hitler” als Geschichtsquelle, «Rheinisch-Westfälische Akademie der Wissenschaft». Vorträge 178, Opladen 1972, contra Wolfgang Hänel, Hermann Rauschning „Gespräche mit Hitler“. Eine Geschichtsfälschung, Ingolstadt 1984). Rauschning è stato autore di due saggi che conobbero una discreta diffusione: Hitler mi ha detto, Milano 1945, ed. or. Zurigo 1940, e La rivoluzione del nichilismo: apparenze e realtà del Terzo Reich, Milano 1947, ma ed. or. Zurigo 1938. Il primo scritto con l’evidente sensazionalismo di una facile pubblicità risulta del tutto inattendibile – falsa, ad es., l’immagine di Hitler come Tappetenfresser (“mangiatore di tappeti”), ovvero di un isterico che con la bava alla bocca si rotolava al suolo mordendo i tappeti. Più interessante invece il secondo che, pur con un linguaggio dell’epoca e certamente in un’ottica conservatrice, cerca di affrontare un movimento politico di massa estraneo a qualsiasi valore ideologico e dai forti tratti irrazionali, indubbiamente una novità nella storia politica europea moderna. Sotto molti aspetti questa ricerca è avvicinabile a un saggio di un autore molto intelligente, giornalista vicino al Partito Socialdemocratico, successivamente esule, come d’origine ebraica, negli Stati Uniti, Konrad Heiden, Adolfo Hitler. L’epoca dell’irresponsabilità, Roma 1947, che già con un’altra opera aveva cercato di descrivere la fine della democrazia weimeriana (Der Fuhrer. Hitler’s Rise to Power, Boston 1944).

   Del tutto trascurabile, invece, se non del tutto inattendibile, la memorialistica degli alti vertici del nazismo o delle alte cariche dello Stato tedesco, non necessariamente naziste, che in un modo o nell’altro contribuirono alla realizzazioni dei piani hitleriani, dal momento che è evidente in loro un processo di autoassoluzione. Il caso più eclatante è certamente quello di Albert Speer (Memorie del Terzo Reich, Mondadori 1972), per lungo tempo considerato una sorta di tecnico prestato alla politica e come tale destinato a svolgere il ruolo di quella Germania che senza colpa si trovò a collaborare col nazismo, ma oggi riletto invece come un astuto e ambizioso professionista molto abile a rielaborare il proprio passato soprattutto alla luce del proprio coinvolgimento nella gestione dell’universo concentrazionario e nella complicità dei crimini ivi commessi (Gitta Sereny, In lotta con la verità. La vita e i segreti di Albert Speer, Rizzoli 1995). Se mai potrebbero essere molto più utili le sue spontanee dichiarazioni agli Alleati pochi mesi dopo la sua cattura ancora rese sotto la spinta emotiva del crollo tedesco e che offrono alcuni spunti acuti sulla persona di Hitler (Richard J. Overy, Interrogatori. Come gli Alleati hanno scoperto la terribile realtà del Terzo Reich, Mondadori 2002). Pleonastici i testi di persone gravitanti fino all’ultimo nella cerchia di Hitler che con memorie redatte decenni dopo hanno cercato in qualche modo di incuriosire il pubblico, di compiere un’operazione di ricostruzione storica, ma in ultima analisi di assolvere se stessi. Si vedano, ad es., l’ex-capo della gioventù hitleriana Baldur von Schirach, Ho creduto in Hitler, Castelvecchi 2017, o la segretaria Traudl Junge, Fino all’ultima ora. Le memorie della segretaria di Hitler, 1942-1945, Mondadori 2003 (Quest’ultimo libro è stato alla base del film La caduta. Gli ultimi giorni di Hitler, uscito nel 2004, per la regia di Oliver Hirschbiegel). L’eccezione, invece, deriva dalle dichiarazioni dei due aiutanti di campo di Hitler, gli ufficiali delle SS Heinz Linge e Otto Günsche, che, prigionieri dei Russi hanno descritto molto apertamente e con molta attendibilità (molto probabilmente sotto la spinta di metodi persuasivi particolari) ciò che succedeva nelle alte sfera della dirigenza nazista e nel quartiere generale di Hitler (Il dossier Hitler Documento n. 462a, Sezione 5, Indice generale 30 dell’Archivio di Stato russo per la storia contemporanea, Mosca, a cura di Henrik Eberle, – Matthias Uhl, pref. di H. Möller, Utet 2005).

    Biografie profondamente orientate per un motivo o per l’altro hanno sempre perciò contraddistinto la persona di Hitler. Tutte però e per molto tempo hanno tratteggiato – come si è detto – l’immagine di un uomo che sin dalla prima gioventù aveva intrapreso – per così dire – la “carriera” di Führer. Solo l’intelligente studio di Albrecht Tyrell, Vom “Trommler” zum “Führer”. Der Wandel von Hitlers Selbsverständnis zwischen 1919 und 1924 die Entwicklung der NSDAP, München 1975 (dove il tamburino del titolo richiama a un episodio millenaristico della storia tedesca medievale, descritto anche da Cohn nel suo I Fanatici dell’Apocalisse citato in precedenza), aveva posto una cesura tra l’attività pubblica di Hitler sottolinendo come solamente da metà degli anni Venti si possa parlare di una decisa leadership hitleriana e di una susseguente costruzione messianica del salvatore della Nazione, del dittatore assoluto e del carisma magnetico cui nessun tedesco poteva sfuggire. Questi ultimi temi sono stato oggetto del bel saggio di Ludolf Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, Feltrinelli 2011, che ha mostrato la complessa operazione mediatica, propagandistica e politica compiuta da gruppi di potere, circoli influenti e centri d’interesse delle élite conservatrici profondamente ostili alla democrazia weimeriana per creare un leader e soprattutto un movimento di massa funzionali alle proprie volontà.

    In questa linea critica della biografia hitleriana s’inserisce anche Brigitte Hamann, Hitler, gli anni dell’apprendistato, Corbaccio 1998 (sulla Vienna di Hitler anche Sidney J. Jones, Hitler in Vienna 1907-1913. Clues to Future, London 1983, ma seguendo la tradizione corrente) che con grande accuratezza ha decostruito tutti i fatti del periodo viennese così come raccontati da Hitler nel suo Mein Kampf o in quelle memorie scritte nella Germania nazista da persone che l’avevano conosciuto, tutti accettati dai biografi come presumibilmente veri. Emerge così il ritratto di uno sbandato sociale, privo di un’identità ben precisa, ignaro del proprio destino, ai margini della convivenza civile, senza alcuna qualifica professionale e culturale, senza alcun disegno politico, mantenuto da piccole rendite ereditarie e senza alcuna autocoscienza di sé.

    Rimarrebbe quindi un Führer nato e formatosi nell’esperienza bellica della Prima Guerra Mondiale, secondo quanto un’abituale lettura della sua biografia e secondo quanto affermato dalla stessa propaganda nazista solita considerare il grande conflitto come formativo dei principi ideologici della propria cultura. Eppure anche quest’episodio biografico sembra essere stato solo una leggenda. Il recente Thomas Weber, La grande guerra di Hitler 1914-1918, LEG 2017 (ed. or., Hitler’s First War. Adolf Hitler, the Men of the List Regiment and the First World War, Oxford 2011), una ricerca approfondita condotta negli archivi tedeschi nel reggimento di Hitler, una formazione bavarese di riserva nota col numero 16 (in sigla Rir 16) o anche come Reggimento Linz dal nome del suo comandante, ha del tutto annullato anche quest’elemento biografico. Di fatto, il libro, che non è altro che una storia del reggimento, – l’unico periodo di cui esiste una testimonianza certa della vita di Hitler riguarda pochi mesi (soldati in prima linea e “porci nelle retrovie”: Maggio 1915-31 dicembre 1915, pp. 137-176) – smentisce in tutto e per tutto quei pochi episodi tramandati della sua vita militare: del tutto falsi gli episodi di combattimento cui disse di aver partecipato; nessuna vita di trincea in prima linea, nel fango, al freddo, al pericolo e alla fame; le ferite, peraltro leggere, riportate più per caso che per altro durante dei bombardamenti. La verità, ben più prosaica, è che trascorse la guerra nelle immediate retrovie come portaordini in un ambiente relativamente protetto e al sicuro. Non si può negare che in alcune situazioni si fosse trovato esposto al pericolo, ma, rispetto al soldato di trincea, in una percentuale infinitamente minore. Molto più interessante, almeno dal punto di vista psicologico e in funzione dei suoi futuri sviluppi biografici, la vicinanza al comando degli ufficiali dove pochi uomini erano in grado di decidere del destino di molti. Non si può non fare a meno di pensare a questo proposito alle illuminanti pagine di Elias Canetti in Massa e potere (Rizzoli 1982, ora Adelphi 1992) sulla morte e sul sopravvivere, alla paranoia e al potere.

    Rimane quindi la vita di un uomo, per noi rilevante solo nel suo aspetto pubblico, che a un certo momento della storia si trova a identificarsi con la maggior parte dei Tedeschi o, meglio, che i Tedeschi scelgono come simbolo della propria identità secondo quanto aveva già rilevato proprio in contemporanea – per così dire – ad es., un Wilhelm Reich (Psicologia di massa del fascismo, SugarCo 1976, pp. 67-68): «solo quando la struttura della personalità di un capo coincide con le strutture individuali a livello di massa di vasti strati della popolazione un ‘Führer’ riesce a fare la storia». Di una totale identificazione tra il popolo e Hitler scrive, naturalmente in un’altra ottica e altrettanto naturalmente per quello che una volta era definito “inconscio collettivo” (ora si preferisce parlare piuttosto di psicologica sociale) Carl Gustav Jung, Jung parla: interviste e incontri, Adelphi 1995, pp. 161-184 (intervista del giornalista statunitense H.R. Knickerbocker pubblicata su «Hearst’s International Cosmopolitan» del gennaio 1939. Analoghi concetti espressi più brevemente anche nell’intervista di H.L. Philp pubblicata su «The Psychologist» del maggio 1939, ivi pp. 185-191).

   Ed è proprio questo che costituisce la terribile anomalia del caso Hitler e del nazismo soprattutto se in paragone con i vari dittatori europei degli anni Trenta e Quaranta e i vari movimenti fascisti. Dove quest’ultimi possono essere rappresentati, anche nella forma più criminale, più simili alle tirannidi popolari dell’antichità classica che all’autoritarismo monarchico degli Stati nazionali, e giunti al potere, come minoranze ininfluenti in ogni libera consultazione elettorale, solo in seguito a un colpo di Stato, a una guerra civile, a un intervento straniero o a elezioni manipolate. Diversamente il nazismo ottenne un buon terzo dei voti del corpo elettorale tedesco giungendo a cogliere gli umori dell’opinione pubblica in verità con un messaggio profondamente folle come l’antisemitismo razziale, il culto di una leadership messianica e un nazionalismo militare. L’approfondimento di un tema come quello del consenso della masse, a proposito del quale esistono già gli ottimi studi di George L. Mosse, dovrebbe essere oggi l’oggetto di nuovi studi sul nazismo alla luce, anche, di ciò che sta avvenendo ora in Europa dove classi dirigenti sempre più lontane dalla realtà dell’uomo medio hanno aperto un vuoto di valori politici e etici in cui potrebbero affermarsi soggetti e movimenti antidemocratici e autoritari.