19 Dicembre 2024

Intervista di Gariwo a Gadi Luzzatto Voghera, direttore della Fondazione CDEC, sull’antisemitismo

Odio, antisemitismo e spaccatura del mondo ebraico. Il quadro è complesso ma…
Bianca Senatore intervista Gadi Luzzatto

“Dimmi chi insulti e ti dirò chi sei”, dice qualcuno prendendo in prestito la massima di Don Gallo “dimmi chi escludi e ti dirò chi sei”. E in effetti, potrebbe essere questo un parametro per capire le fonti dell’odio: quello gridato, quello scritto, quello attuato. Eppure, in un mondo in cui insultare qualcuno prendendo spunto da una caratteristica del proprio essere, essere donna, essere in carne, essere ebreo, è diventato normale, anche la matrice stessa dell’odio diventa confusa.

Chi insulta le donne è misogino, chi insulta gli ebrei è antisemita, chi prende in giro qualcuno per l’aspetto fisico fa body shaming…ma è davvero tutto così netto? E l’antisemitismo è una forma di odio tanto quanto lo è quella contro i migranti? Ultimamente, soprattutto da dopo il 7 ottobre, gli episodi di antisemitismo si sono quadruplicati e si è aperto anche all’interno stesso del mondo ebraico una profonda riflessione su vari aspetti del problema.

Ne abbiamo parlato con lo storico Gadi Luzzatto Voghera, direttore della Fondazione centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC) di Milano con cui Gariwo ha una convenzione per la promozione nelle scuole degli studi sulla memoria e la Shoah. Luzzatto ha da poco pubblicato Sugli ebrei. Domande su antisemitismo, sionismo, Israele e democrazia, un libro che approfondisce proprio questi temi.

Che quadro può fare, oggi, dell’antisemitismo di questi tempi?

Diciamo che dopo il 7 di ottobre sono cambiate veramente molte cose. Sono cambiati i parametri di percezione delle azioni di antisemitismo fra le persone e nella componente ebraica, che è oggetto di atti di antisemitismo. Sono cambiati alcuni linguaggi ed è cambiata la frequenza, sia degli atti fisici sia di quelli di odio online. Possiamo dire che l’antisemitismo è passato da un rumore di fondo, che era noto nella società contemporanea, perché tanti sondaggi lo registravano come un fenomeno presente piuttosto consistente, ma comunque con il quale si poteva convivere, a un fenomeno allarmante. Non posso neanche dire che sia un fenomeno che riguarda solo l’Italia, perché coinvolge tutto il mondo e non solo quello occidentale. Per conto mio, la cosa più allarmante è che l’antisemitismo sia diventato un’arma politica molto evidente, che viene utilizzata da diversi soggetti in maniera sempre più visibile e in differenti contesti, cosa che tempo addietro non avveniva.

Oggi, con l’indiscusso aumento di casi di antisemitismo, ci si sta interrogando molto sul cosa sia antisemitismo e cosa no. Secondo lei ci può essere il rischio di separare l’antisemitismo da altre forme di odio come quello contro le donne, i migranti ecc?

Sì, decisamente. Anche se ho alcune riserve sulla definizione dell’Hira della Working definition of antisemitism fatta dall’International Holocaust Remembrance Alliance. In effetti, avere una definizione di antisemitismo chiara è qualche cosa che può aiutarci a evitare quella che in inglese si chiama weaponization. In italiano potremmo definirla la strumentalizzazione dell’antisemitismo come fosse un’arma. L’antisemitismo è un fenomeno effettivo, è un fenomeno pericoloso che pervade ampi ambienti della società contemporanea. Però, chiamare ogni azione che riguardi Israele o gli ebrei antisemitismo rischia far perdere un po’ la visione del contesto. Inoltre, secondo me, c’è anche il pericolo di non riuscire più a delineare le strategie possibili per contrastare il fenomeno. Si discute molto della distinzione tra antisemitismo e antisionismo. Ne ho parlato anche nel mio libro, per capire come comportarsi di fronte a questo equivoco.

Per quanto riguarda il rapporto fra antisemitismo e tutte le altre forme di odio, devo dire che questa è una questione centrale che arriva in Italia e in Europa in ritardo rispetto agli Stati Uniti. Diciamo che questa dinamica è esplosa in maniera molto visibile e, però, è qualche cosa di profondamente culturale con la quale dobbiamo fare i conti. Ci sono delle frange molto estreme, molto combattive di soggetti che lottano in maniera decisa contro la violenza sulle donne, contro il razzismo, contro le discriminazioni lgbtq+. E però, quando gli dici che c’è anche l’antisemitismo rispondono che non c’entra niente, che non è un’emergenza. E’ come se un certo tipo di mondo, abituato a combattere le discriminazioni e linguaggi d’odio nella società, improvvisamente non veda più l’antisemitismo e non consideri grave la violenza verso gli ebrei.

Alcuni mesi fa sulle pagine Haaretz e poi anche nel suo libro il filosofo Harari ha parlato delle sue inquietudini rispetto alla presenza, nella società israeliana, di fanatici e suprematisti che si accaniscono contri chiunque abbia una posizione diversa, in particolare sul governo. Secondo lei c’è odio anche all’interno del mondo ebraico? Cioè, tra gli stessi ebrei?

Certamente. La società israeliana ha questa doppia caratteristica di essere una società disegnata in maniera occidentale, ma che ha tutte le caratteristiche della società orientale, tra cui c’è la violenza. In Israele, indubbiamente, è cresciuto un movimento politico che non esito a chiamare fondamentalismo ebraico. Come esistono fondamentalismi in tutti gli ambiti religiosi, esiste anche un fondamentalismo ebraico che, in verità, c’è da molti anni. Già da prima del governo Netanyahu, molte componenti della società israeliana combattevano questi gruppi fondamentalisti e davano l’allarme per la crescita del fenomeno. Col governo Netanyahu, poi, essendo fortunatamente un regime democratico, queste frange sono andate al governo. Ora, dunque, queste minoranze hanno dei ministri, hanno un potere effettivo e, di conseguenza, la loro presenza è sempre più invasiva e influente. Questo determina un aggravamento della spaccatura della società israeliana, che già di per sé è articolata, ma che è ancora più instabile proprio perché la spaccatura è sempre più grave.

Dopodiché, questa spaccatura avviene in un momento di guerra e quindi in un momento di pericolo immediato per la sopravvivenza dello Stato d’Israele, che è attaccato da più parti in maniera evidente. Come sempre, la guerra accentua queste spaccature, ma nello stesso tempo le fa accettare. La gente pensa: “sì va bene, ce ne occuperemo dopo. Intanto dobbiamo vincere la guerra, perché dobbiamo sopravvivere”. Però, andando avanti così, in realtà, queste spaccature sono sempre più visibili. E ne fanno le spese in molti: sicuramente i villaggi palestinesi dei territori occupati della Cisgiordania; ne fanno le spese anche molte componenti laiche e secolari o comunque tutti coloro che, nel mondo ebraico, non la pensano come questi fanatici. Alla fine, i fanatismi religiosi vanno a colpire prima di tutto la propria componente religiosa. Il fondamentalismo islamista ha fatto molti più morti nel mondo islamico che non da altre parti. E la stessa cosa succede, e succede da tanto tempo, anche nello Stato d’Israele. Tanto da aver provocato l’assassinio di un primo ministro. Rabin è stato ucciso proprio per mano di questa componente.

In Italia ci sono realtà che accusano di antisemitismo chiunque attacchi il governo di Netanyahu, lei cosa ne pensa?

Ci sono molti suoi fan sui fan nel nostro Paese. Ma sa, in Italia si usa strumentalizzare le dinamiche mediorientali riproponendo il conflitto in sedicesimo e in forma verbale. È un’abitudine che arriva un po’ da tutte le parti. Il tutto per strumentalizzare politicamente una dinamica esplosiva, anzi, che è già esplosa.

Molti associano il popolo ebraico alle scelte politiche di Netanyahu e quindi, ogni ebreo, solo in quanto di fede ebraica, viene colpevolizzato per quanto sta accadendo a Gaza. Questo tema come si affronta?

Sì, questa è un’abitudine che c’è da molto tempo. È l’incapacità di dare nomi alle cose e di contestualizzare gli eventi. Non è che si può dire che non stia succedendo niente a Gaza. A Gaza stanno succedendo tante cose gravi, ma i soldati israeliani non sono i perseguitati dei campi nazisti, per cui anche se sono ebrei, ammesso che i soldati israeliani siano tutti ebrei, e non è così, non sono la stessa cosa. Gaza non è Auschwitz. Sono scorciatoie ideologiche. Dare del nazista a chiunque, come se il nazismo fosse un contenitore nel quale si può mettere tutto, non ha senso. Il nazismo è stata una cosa gravissima e se non lo si circoscrive in qualche modo, anche dal punto di vista delle distorsioni etiche che ha portato nel mondo;  se non lo si racconta per quello che è stato, si rischia di banalizzarlo. Non lo si può utilizzare come espressione del male assoluto, declinandolo di volta in volta in base alle situazioni: i russi dicono che gli ucraini sono nazisti, gli ucraini dicono che Putin è nazista; i palestinesi dicono che gli israeliani sono nazisti e gli israeliani lo dicono dei palestinesi. Questa è una distorsione grave della storia che ci impedisce di guardare alle cose come stanno.

Alla fine, secondo lei, si può affrontare il tema dell’antisemitismo senza affrontare anche la questione Medio Oriente?

No, in questo momento no. In questo momento decisamente no. La questione mediorientale è una questione che, però, non si limita al conflitto fra israeliani e palestinesi. Si deve allargare l’ambito sia alla geopolitica, nel senso di capire esattamente quello che sta succedendo e ne stanno succedendo tante da quelle parti. E poi si devono coinvolgere anche le componenti religiose che in tutti i campi, ma sicuramente nei tre monoteismi, devono fare uno sforzo per recuperare la loro componente dialogica, valoriale ed etica.  Senza rimanere schiavi di visioni fondamentaliste che tendono a far strumentalizzare la religione in chiave politica. Ani, bisogna sottrarre la religione alla strumentalizzazione politica e so che non è facile. La religione, nel mondo islamico come anche in altri Paesi, ha anche un potere politico.

Nel mondo cattolico, per esempio, c’è il Papa che è allo stesso tempo un punto di riferimento spirituale, ma è anche il capo un piccolo Stato e opera dal punto di vista giuridico sul piano internazionale. Israele è uno Stato che ambisce alla possibilità di raccogliere tutti gli ebrei, ma soprattutto, il suo governo attuale intende rappresentare tutti gli ebrei del mondo, delega che non ha, per altro. E tutte queste dinamiche influiscono in maniera importante sul nodo antisemitismo che interessa a tappeto tutte le società contemporanee e che è un nodo che, invece, è fatto di altri elementi pericolosi. Io lo dico sempre. In Italia, la crescita dell’antisemitismo, a prescindere dal pericolo per la piccola minoranza ebraica che si sente minacciata, è un pericolo per la democrazia. Perché minaccia la libertà religiosa, la libertà di discussione, la libertà di riunione, la libertà di istruzione: tutti i valori della nostra Costituzione che non sono assicurati a una piccolissima componente della società italiana, cioè, gli ebrei proprio per questo rampante antisemitismo.