30 Ottobre 2024

Rav Della Rocca risponde a Michele Serra

Michele Serra contro “gli ebrei del Levitico”. La risposta di Roberto Della Rocca

Egregio Michele Serra,

non credo sia utile tornare nuovamente sulle ragioni di Israele, che lei, come molti suoi colleghi, sembra ormai voler ignorare, attratto da una visione univoca e distorta che ostacola un’analisi seria e onesta su una realtà complessa e articolata. A questo proposito, le invio separatamente due miei articoli pubblicati su La Repubblica nei mesi scorsi.

Mi preme tuttavia sottolineare il mio stupore sull’uso che fa di alcuni insegnamenti biblici e della cultura ebraica, che vengono impiegati con superficialità e spregiudicatezza per sostenere alcune argomentazioni. Nel suo recente riferimento al libro del Levitico, ad esempio, la condanna della vendetta è interpretata in modo da riproporre pregiudizi notoriamente legati a teorie antigiudaiche. Il capitolo 19 del Levitico sottolinea invece i principi etici fondamentali dell’ebraismo, come per esempio, “Ama il prossimo tuo come te stesso” , “Non vendicarti e non serbare rancore” , “Ama lo straniero” etc. “. Valori che l’ebraismo ha insegnato all’umanità.

Ignorando tali principi, che da sempre contraddistinguono la cultura ebraica, lei trasforma un testo sacro in un presunto manifesto di odio, usando con disinvoltura un’infelice dichiarazione isolata di un politico israeliano come se questa rappresentasse l’intera missione del popolo ebraico tout court.

È il consueto cliché paolino e marcioniano, ripreso ormai anche da certa sinistra che si dichiara – sempre più impropriamente – laica e progressista, che considera il “Vecchio Testamento” solo una fonte di legalismo e vendetta, presuntamente superato da una nuova alleanza di amore e universalismo di cui si ritiene priva la Bibbia ebraica.

Che questi pregiudizi persistano in contesti reazionari cattolici e islamici non ci stupisce oltremodo, ma vederlo riaffermato da un intellettuale, che dovrebbe andare oltre una lettura superficiale, è disarmante. Il suo approccio, reiterato nei suoi attacchi alla tradizione ebraica, sembra ormai aderire a una “religione dell’antireligione” piuttosto che a un’analisi illuminata: un vero intellettuale laico dovrebbe, infatti, incoraggiare i lettori ad approfondire, a cercare i testi, a studiare la storia ebraica e, come per tutte le culture, a cercare punti di riferimento validi. Così facendo, aiuterebbe davvero a “scoprire” la cultura ebraica nella sua autenticità.

Sembra che lei riconosca esclusivamente come rappresentanti della cultura ebraica quegli ebrei “democratici” che promuovono invece un pluralismo a senso unico, escludendo tutto ciò che è “diverso” da sé. Non è chiaro su quali basi attribuisca la patente di democratico, ma dai suoi scritti pare evidente che il criterio sia il distacco da Israele e la delegittimazione dei valori fondamentali su cui si basa la sopravvivenza stessa del popolo ebraico. Addirittura definendo, con sussiego e disprezzo, “residuali” quegli ebrei che quotidianamente interpretano proattivamente la loro cultura di minoranza e che lottano affinché ci siano sempre culture di minoranza.

Ancora una volta ci si appella a un esempio riduttivo e stereotipato, che ritrae il Dio ebraico come promotore di una legge del taglione (“occhio per occhio, dente per dente” – Esodo 21, 24 e Levitico 24, 17-22). Ma la “cultura ebraica” implica un dialogo con le fonti talmudiche, scritte dai tanto “deprecati” Farisei, che sostituiscono la vendetta con il risarcimento. Secoli prima della moderna e “civile?” Europa, il Talmud introduceva concetti quali il lucro cessante e il danno emergente, stabilendo il principio di proporzionalità e spostando la punizione in una sfera giuridica pubblica.

Tutte le storie della Bibbia ebraica esaltano quell’amore misericordioso che caratterizza la Tradizione di Israele e di cui, ancora oggi, si ritrova traccia nell’odierno Stato ebraico, i cui ospedali si prendono cura di tante vittime del fronte opposto, e di tanti altri esempi di grande umanità che tante “anime belle e caritatevoli” continuano a ignorare.

L’ebraismo ha la Torà con la sua esegesi rabbinica a fondamento della definizione di sé stesso, e la nostra storia di ebrei di oggi è la continuazione ininterrotta di quella storia. La Torà è una costante autodefinizione del popolo di Israele. E per l’ebreo è impossibile accettare che quelle stesse parole su cui la sua identità si basa, significhino qualcosa che non lo riguarda più. L’ebraismo è fin dal suo inizio religione e storia insieme: anzi l’ebraismo è la storia di una realtà religiosa in cui la Torà, il popolo e la Terra formano un unicum, un tutto inscindibile, e se nella definizione stessa di dialogo tra culture e religioni differenti è implicita l’esigenza di entrare in rapporto con l’altro nella propria completa identità e di accettare, comprendere l’altro per come egli stesso si autodefinisce, è chiaro che se si fa esclusione di uno solo di questi tre elementi, usare il termine dialogo diventa assolutamente improprio e il superamento di antichi rifiuti cede il passo a nuovi modi di argomentare il rifiuto.

Per me, e per molti altri lettori che hanno letto le sue considerazioni con delusione, rimane la speranza che intellettuali di rilievo come lei possano superare ambiguità e riserve, promuovendo il dialogo con maggiore rigore e onestà intellettuale.

Cordiali saluti

Roberto Della Rocca