10 Ottobre 2024

Victor Fadlun, Presidente della Comunità ebraica di Roma, ricorda Stefano Gaj Taché

Fonte:

Il Messaggero

Autore:

Victor Fadlun

Il ricordo di Stefano Gaj Taché un monito per tutti Victor

Caro Direttore, sono passati quarant’anni dall’attentato alla Sinagoga ed è come fosse ieri, per tutti noi ebrei di Roma. Anzi, come fosse oggi, perché le analogie degli eventi che si svolgono adesso in Medio Oriente e del clima che respiriamo a Roma con quelli di allora è sconvolgente. Quel 9 ottobre 1982, il giorno che ha cambiato la storia della nostra comunità, quello in cui venne ucciso Stefano Gaj Taché, un bimbo di soli due anni, era una giornata di sole e c’era un’aria di festa, tanto che le prime granate lanciate dal commando di terroristi non furono percepite subito come una minaccia mortale. Vennero prese per sassi. Poi cominciò il crepitio dei mitra. Un attentato terribile, compiuto da terroristi palestinesi che non ebbero pietà per le famiglie e i bambini, e che puntarono a uccidere, a provocare una strage. Alla fine, a terra rimase il povero Stefano, ma oltre quaranta, ufficialmente 42, fu il bilancio dei feriti, alcuni gravissimi. Per quell’attentato non c’è una verità giudiziaria o processuale, non ci sono colpevoli, soprattutto non ci sono terroristi che abbiano pagato per l’orrore che hanno commesso. I sospettati riuscirono a fuggire, il segreto avvolse gli sviluppi delle indagini, solo di recente si sono aperti squarci di una possibile verità, che peraltro coincide con quella che la comunità ebraica di Roma ha sempre denunciato. Ma ciò che desidero sottolineare, oltre a rinnovare la richiesta di verità e giustizia, è che col senno di poi, quell’attentato era stato preparato da una campagna di odio antiebraico e di sobillazione degli animi innescata dalla guerra in Libano. Guerra per la quale si addossò la responsabilità non solo a Israele ma agli ebrei in quanto tali, anche agli ebrei romani, sulla base assurda di una confusione di ruoli tra lo Stato di Israele e la comunità ebraica romana che tragicamente opera di nuovo oggi. Ogni volta che si accende il Medio Oriente, assistiamo a un ritorno dell’antisemitismo viscerale, e così dopo il 7 ottobre e la guerra di Israele per difendersi dal terrorismo di Hamas e Hezbollah, abbiamo subito in Italia aggressioni e gesti inaccettabili come l’oltraggio alle pietre d’inciampo che ricordano, davanti alle loro case, i deportati romani del ’38 uccisi nei campi di concentramento. Abbiamo assistito alla censura violenta dei giornalisti ebrei nelle Università e al boicottaggio culturale degli atenei israeliani, tra i più prestigiosi al mondo. E ai cortei in cui si grida “morte all’ebreo” osi inneggia alla sparizione di Israele dalle cartine geografiche. Anche nel raso di Stefano Gaj Taché, si innescarono alcuni meccanismi a noi ben noti di mistificazione, come il fatto di non averlo inserito nella lista delle vittime italiane di terrorismo. Solo nel 2012 si ottenne, con il Presidente Napolitano, un riconoscimento che equivaleva anche a riconoscere che Stefano era un bambino tanto ebreo quanto italiano. Ricordo che nei giorni precedenti l’attentato, venne pure rovesciata una bara davanti alla Sinagoga durante una manifestazione sindacale. E le condanne furono blande o addirittura non ci furono. Ieri come oggi. La differenza è che oggi possiamo contare, fin dall’inizio della crisi, sulla vicinanza delle istituzioni e del Governo, e sulla sensibilità e professionalità delle autorità responsabili della sicurezza dei cittadini, così come delle forze dell’ordine. Siamo convinti che alla fine prevarranno la verità e la ragione. E come diciamo noi, il ricordo di Stefano Gaj Taché dev’essere una benedizione per tutti, non solo per noi ebrei, un monito a recuperare il senso dei valori su cui si fonda la democrazia. E a condannare senza se e senza ma il terrorismo di quarant’anni fa, come quello di oggi.