Fonte:
Corriere della Sera
Autore:
Alessandra Tarquini
Antisemiti o antisionisti, un labirinto pericoloso
Qual è il confine fra antisionismo e antisemitismo? Ed è possibile manifestare l’uno senza l’altro? Israele è uno Stato nato dalla cultura politica del sionismo, ma i suoi governi, come quelli di tutto il mondo democratico, sono espressioni di classi dirigenti, di maggioranze, di coalizioni. Dunque, perché quando critichiamo le scelte di Benjamin Netanyahu, sentiamo il bisogno di parlare di sionismo, un movimento europeo di autodeterminazione, fondato da Theodor Herzl alla fine del XIX secolo per dare vita a uno Stato degli ebrei? A tali questioni risponde Gadi Luzzatto Voghera con l’agile libro Sugli ebrei (Bollati Boringhieri). Il volume è diviso in due parti: nella prima Luzzatto Voghera si sofferma su alcuni momenti e aspetti di rilievo della storia dell’ebraismo moderno, e in particolare sulla sua evoluzione negli ultimi duecento anni. Nella seconda risponde alle domande poste da un interlocutore immaginario che dichiara di non essere antisemita, ma antisionista Dopo il 7 ottobre abbiamo sentito spesso affermare che il sionismo è un movimento «per sua natura genocidario», «uno strumento economico militare che attraverso la nefanda azione congiunta di lobby americane e la martellante azione di un efficiente sistema di propaganda, opera al servizio dell’imperialismo». In realtà, è difficile immaginare come uno Stato genocidario abbia consentito la quintuplicazione dei palestinesi dal 1948 a oggi. Così come è complicato capire come mai un Paese, nato da una dichiarazione dell’Onu, possa essere considerato uno Stato essenzialmente usurpatore, se non ammettendo che la sua esistenza è illegittima. Molto spesso, fra l’altro, nell’antisionismo c’è l’idea che il sionismo governi il mondo e che gli ebrei siano i protagonisti di questo dominio. L’interlocutore immaginario non si convince ed esprime giudizi stereotipati, quando descrive gli ebrei come un popolo unitario, uguale a sé stesso nei secoli e nei luoghi; o quando dichiara che non sarebbero fedeli ai Paesi nei quali vivono perché lo sarebbero nei confronti dello Stato ebraico. Anche questo è uno degli argomenti ricorrenti dell’antisemitismo moderno: l’accusa di doppia lealtà. Racconta Luzzatto Voghera che «anni fa, il governatore di una regione del Nord in visita alla locale comunità ebraica», il giorno in cui si svolgevano le elezioni israeliane, «chiedeva curioso dove fosse collocato il seggio per il voto». Dava per scontato che gli ebrei, in quanto tali, avessero diritto di voto in Israele. Più di recente, un professionista invitato a cena da un amico ebreo, ha domandato al suo ospite sessantenne, quindi difficilmente reclutabile, se fosse stato richiamato nell’esercito israeliano per la guerra in corso. In effetti, le opinioni espresse in pubblico o in privato sull’ebraismo, su Israele, sul sionismo, denotano spesso ignoranza, quando non dichiarata ostilità. Non sono le politiche dei governi israeliani a determinare l’antisemitismo, che esiste prima e indipendentemente dal conflitto in Medio Oriente. Del resto, non è una novità. Gli stereotipi antisemiti più logori hanno accompagnato le guerre arabo israeliane dal 1948: il paragone fra gli israeliani e i nazisti, i richiami al Dio cattivo di Israele, la sovrapposizione fra i termini israeliano, ebreo e sionista. Si trattava, allora come oggi, di attacchi violenti agli ebrei, alla libertà, alla democrazia, a noi tutti.