28 Giugno 2024

Valentino Baldacci analizza il pamphlet J’accuse di Francesca Albanese

LA RIFLESSIONE – Baldacci: Albanese, un J’accuse che imbarazza

Il sentimento prevalente nella lettura di J’accuse di Francesca Albanese è l’imbarazzo. L’imbarazzo nasce non dal fatto che il libro dell’Albanese sia stato scritto per sostenere le ragioni del popolo palestinese, cosa del tutto legittima. L’imbarazzo nasce prima di tutto dal titolo che riprende quello della lettera indirizzata da Emile Zola a l’Aurore in difesa di Alfred Dreyfus. Albanese lo riprende senza alcun imbarazzo, convinta com’è di essere la nuova Zola. Ma l’imbarazzo nasce anche, e soprattutto, dal fatto che Albanese si autodefinisca portatrice della verità, ed è in base a questa convinzione che Cristian Elia (che le formula le domande in base alle quali Albanese dà le sue risposte) afferma che chiunque non sia d’accordo con le sue tesi è portatore di «violenza epistemica».
La verità, magari con la v minuscola, significa innanzitutto l’accertamento dei fatti, e infatti anche nella quarta di copertina si definisce il libro di Albanese «una forte testimonianza civile basata su fatti, accertati, documentati e incontestabili». Ma in realtà nel libro di Albanese i fatti non ci sono. Ci sono al loro posto frasi solenni, altisonanti, scritte apposta per colpire l’immaginazione del lettore, non la sua ragione, come in maniera contraddittoria afferma Roberta De Monticelli, che scrive la postfazione al libro, che è in realtà una lunga perorazione in difesa di quanto affermato da Albanese. Frasi considerate vere solo perché sostenute dalla stessa Albanese (anzi, dalla Relatrice speciale, come la definisce di continuo nella postfazione Roberta De Monticelli, come se questa qualifica la rendesse di per sé più credibile, invece di citarla con il suo semplice cognome). E infatti un ulteriore motivo di imbarazzo è dato dal fatto che in effetti Albanese copre la carica di “Relatrice speciale sui territori palestinesi occupati”.
Questo ruolo dovrebbe consentirle di portare argomenti a favore delle sue tesi che sono in sostanza 1) il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, ma non come conseguenza di un negoziato con Israele: «La questione dell’autodeterminazione palestinese è una precondizione fondamentale, non l’obiettivo finale di qualsiasi pace e di qualsiasi negoziato». 2) La criminalizzazione di Israele. Su questo punto Albanese non è chiara. Non si capisce se la condanna radicale di Israele si riferisce all’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e di Gaza, conseguenza della guerra del giugno 1967, oppure all’esistenza stessa di Israele, considerata come conseguenza della guerra del 1947/1948.
Ma è opportuno tornare sul tema della verità: «L’unico antidoto alla guerra delle narrazioni contrastanti – afferma ancora Albanese – è solo la verità, proclamata con coraggio per mettere le cose in chiaro. Ma per conoscere la verità deve esserci un testimone o narratore della verità. E i testimoni e i raccontatori della verità sono tragicamente messi a tacere oggi, più che in passato». Albanese si considera esplicitamente questa testimone o narratrice della verità, ma riesce difficile accettare la sua affermazione che questi testimoni o narratori della verità e lei stessa siano messi a tacere, tenuto conto proprio del ruolo che lei stessa è stata chiamata a coprire, del libro nel quale le sue tesi sono esposte e l’ampiezza delle reazioni alle tesi stesse.
In realtà Albanese teorizza esplicitamente la sua intenzione di non portare a sostegno delle sue tesi quei “fatti” così frequentemente richiamati a parole: «Nell’ambito del mio mandato, invece di catalogare i crimini commessi da Israele, cerco di esporre la sua naturale evoluzione, le sue intenzioni e il suo impatto, spesso messi a tacere dal discorso pubblico».
Non è possibile seguire Albanese in dettaglio perché richiederebbe una lunga, anche se non inutile, riflessione sulle sue affermazioni, caratterizzate da frasi altisonanti mai seguite da una esposizione dei fatti sui quali afferma di basarsi. Può essere comunque utile, a mo’ di esempio, ricordare che in conclusione dei sette capitoli di cui si compone il suo libro, Albanese sferra un duro attacco alla definizione di antisemitismo elaborata dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), organizzazione intergovernativa formata da 35 Paesi, considerandola «strumento pericolosissimo per la libertà di espressione».