Fonte:
Il Foglio
Autore:
Daniela Santus
Contro i cattivi maestri
L’organizzazione degli studenti universitari palestinesi in Italia ha indetto, anche nel nostro paese, l’intifada delle università chiedendo che, a partire dal 15 maggio, gli studenti e le studentesse si accampino nei cortili universitari a imitazione di quanto avviene nei campus americani. Intifada è un termine che deriva dall’arabo e significa “scrollarsi di dosso”, da sempre riferito ai palestinesi intenti a scrollarsi di dosso gli israeliani, poi generalizzato con l’invito a rendere globale la rivolta e ora proposto nella versione universitaria. Cosa significa intifada universitaria? Che cosa intendono scrollarsi di dosso questi studenti? Nelle nostre università studenti e, in alcuni casi, docenti manifestano al fianco della “resistenza palestinese”, forse in un osceno fraintendimento dei termini. Un po’ come se, successivamente all’8 settembre 1943, ci fosse stato chi – nel mondo – avesse manifestato per Mussolini e le squadracce fasciste scambiandole per la resistenza partigiana in Italia. Di fatto questo è Hamas: il regime. Vorrei sviluppare queste riflessioni concentrandomi su tre punti: 1) non è necessario essere fascisti per essere antisemiti; 2) quali sono le conseguenze, per il futuro, derivanti dall’ignoranza instillata dai cattivi maestri; 3) potremmo guardare più da vicino l’esempio di chi sta combattendo l’antisemitismo con risultati migliori dei nostri. 1) Quante volte notiamo persone che si fanno scudo dell’antifascismo per dimostrare che, al di là di tutte le evidenze, non sono antisemite? Questa è una prerogativa dei cattivi maestri: mai insinuare che gli ebrei gli stiano proprio antipatici, si offendono mortalmente. Loro criticano i governi d’Israele, non gli ebrei. Eppure basterebbe conoscere un poco la letteratura italiana, se non la storia, per scoprire che persino durante l’epoca fascista – quando non esistevano governi israeliani da criticare in quanto Israele, come stato, ancora non era nato – già esistevano intellettuali antisemiti e contestualmente antifascisti. Voglio farsi un esempio. A fine Ottocento, proprio negli stessi anni in cui si stava realizzando la Prima Aliyah, crebbe anche il fenomeno del pellegrinaggio cristiano, soprattutto per via della maggiore facilità di viaggio rispetto ai secoli precedenti. Tra questi pellegrini/viaggiatori spicca Matilde Serao, autrice e giornalista italiana. Anzi, il primo “direttore donna”, come si diceva a quei tempi, di un quotidiano in Italia, ruolo sino ad allora dominato dagli uomini. A margine del suo viaggio in Terra Santa, Serao compose un volumetto dal titolo “Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina” che, in breve, divenne un best seller. Non dimentichiamo che Serao viene studiata nelle nostre aule scolastiche anche per il suo coraggio antifascista che le fece perdere il Nobel, assegnato nel 1926 alla Deledda. Eppure l’antifascista Serao disprezzava profondamente gli ebrei e ben poco conosceva della terra che si apprestava a visitare. “Niuno qui, a bordo dell’Apollo – augurioso nome – parla di Palestina, che è vocabolo geografico non tanto comune: ma la sonante parola Soria ritorna sempre, tra i dialoghi dei viaggiatori. Soria!” E’ chiaro che l’autrice, nel suo eccitamento, non aveva compreso il termine geografico, tanto da scriverlo proprio così: “Soria”, che non ha alcun significato. Come si può immaginare, la parola pronunciata dai compagni di viaggio dell’autrice altro non era che Siria. Ciò conferma il fatto che non solo la “Palestina” non era un’entità territoriale autonoma, neanche sotto l’Impero Ottomano, ma che il suo nome era sconosciuto alla maggior parte delle persone. Infatti, la Siria ottomana includeva l’area a est del Mediterraneo, a ovest dell’Eufrate, a nord del deserto arabico e a sud delle montagne del Tauro. Il dettaglio geografico non deve distoglierci però dalla descrizione del primo incontro della Serao con gli ebrei, che avviene sul treno da Jaffa a Gerusalemme: “Pallidi, con i capelli riccioluti sulle orecchie, dai berretti di lana, dai berretti di pelliccia spelata, sudici, emananti cattivi odori” scrive la signora del giornalismo italiano. Serao non soltanto era influenzata dai pregiudizi antisemiti del suo tempo, ma li aveva fatti propri, sia in questo testo che, ancora di più, nel romanzo che scrisse di lì a poco, “La mano tagliata”. E’ tuttavia interessante notare il fatto che, nel 1905, la traduzione inglese del diario di viaggio nel paese di Gesù, non presentava le parti più specificamente antisemite.
In altre parole, il traduttore Richard Davey – non sappiamo se con l’accordo o meno dell’Editore William Heinemann – non se la sentì di contribuire, con il suo lavoro di traduzione, a spargere il veleno e semplicemente stralciò quelle parti.
Certo è che la presenza ebraica infastidiva, e non poco, la Serao. Quando, ad esempio, comprende che la maggioranza degli abitanti di Gerusalemme erano ebrei, sbotta: “Ma fra le sessantamila persone che abitano tra le sacre muraglie, vi è forse un popolo di Gerusalemme?… Non gli ebrei, che ora costituiscono metà, più della metà, degli abitanti di Gerusalemme… Gli ebrei hanno iniziato a tornare a Gerusalemme. Stanno tornando da tutti i paesi lontani d’Europa, pallidi, stanchi, quasi sempre malaticci, con l’aria timida dei cani frustati, sogguardando obliquamente ogni persona, temendo in ognuno un nemico, un persecutore, silenziosi, pensierosi, incapaci di argomentare, con la necessità di nascondersi, sempre in piccole case, oscure e silenziose, in meschine botteghe, dove quasi non appare mercanzia […] hanno l’aria di intrusi che quasi rubano l’aria e il sole dalla santa Sionne; camminano lungo le mura; si distinguono soprattutto per un’apparenza costante di debolezza, di infirmità, persino nei giovani, persino nei bambini… Non sanno lavorare la terra. La loro tradizione di pastori e agricoltori è stata dispersa, così come la loro razza: venti secoli di commercio, industria e negozi scorrono nelle loro vene. Le loro donne, raramente belle, quasi sempre pallide, con certi occhi pallidi dallo sguardo incerto, non vanno velate, ma indossano un certo curioso antico cappello… vanno anche loro insieme, silenziose, guardando appena intorno, camminando velocemente per raggiungere le loro case, che sono le più brutte di Gerusalemme.”
Matilde Serao, che qualche anno dopo ebbe il coraggio di dire a Mussolini che era antifascista, portava nel suo cuore l’odio più antico, quello verso gli ebrei. E come lei quanti altri! Non soltanto a fine Ottocento, ma nel corso dei decenni. Che sia stata l’influenza del pregiudizio cristiano prima, di quello nazifascista dopo, di quello bolscevico e comunista più tardi o di quello islamista oggi, il virus dell’antisemitismo in Italia pare più difficile da debellare di quello del Covid-19. Però è chiaro che l’antifascismo non ci assolve.
2) Chi sono i cattivi maestri? Matilde Serao, forse senza nemmeno rendersene conto, lo è stata per i suoi lettori. Eppure lei stessa venne influenzata da altri, che le furono maestri e da cui assorbì il pregiudizio. Nessuno nasce cattivo maestro, ma è certo che solo un impulso insopprimibilmente forte, come il desiderio di ricerca della conoscenza, ti può far ribellare a chi ti è preposto, ti insegna, ti valuta e, magari, decide della tua carriera o ti spiega che, se farai/penserai diversamente non avrai la salvezza eterna. Vedo tanti cattivi maestri in cattedra, ma questo è un discorso ancora diverso. Alcuni sono semplicemente pessimi insegnanti. Chi è in cattedra oggi, era studente ieri. Basta inviare una MAD alle scuole (messa a disposizione) per essere convocati per una supplenza. Tutto sommato, non è neppure necessario il concorso. Talvolta le scuole, in assenza di personale, affidano supplenze anche a studenti non ancora laureati. Non che la laurea, oggi, sia per tutti sinonimo di preparazione. Non ci si deve pertanto stupire se troviamo docenti, come quello recentemente balzato agli onori della cronaca a Genova per aver assegnato un tema sulle “stragi che l’esercito israeliano compie da settant’anni”, ignari persino della data cui stanno facendo riferimento. Più pericoloso e subdolo è invece quando certi stereotipi vengono riportati nei libri di testo e gli insegnanti semplicemente ripetono quanto letto, ma questo non significa essere cattivi maestri. Ci sono diversi tipi di cattivi maestri. Alla scala più infima di questo inquietante girone dantesco troviamo quelli che sono talmente pigri da non aver voglia di interrogarsi e fare ricerca neppure dopo la laurea, ma il fatto di portare la kefiah al collo li fa sentire giovani e amici dei loro studenti. Sono antisemiti? Assolutamente no, sapere a cosa fa riferimento l’antisemitismo sarebbe per loro un impegno fin troppo gravoso. Poi troviamo, appena un gradino sopra, quelli che sono stati i burattini dei cattivi maestri. Questo livello è già più problematico. Alcuni sono stati gli allievi prediletti e hanno fatto carriera, ora magari siedono a una cattedra universitaria. Tra di loro si trovano quelli che spesso non permettono agli studenti di registrare le proprie lezioni, molto più di frequente quelli che organizzano eventi sulla Palestina anche se insegnano Storia delle migrazioni delle farfalle sud-coreane. Alcuni di questi, col tempo, si trasformano: da burattini diventano burattinai e i burattinai, soprattutto nelle università, sono pericolosi. Infine i grandi vecchi, i Cattivi Maestri ad honorem. Alcuni sono scomparsi, ma i loro scritti restano. Altri – i più giovani, i neo cattivi maestri – issano metaforiche barricate: incendiano i cuori degli studenti con termini quali occupazione, genocidio, apartheid, imperialismo, privazione dell’acqua. Inutile sperare in una contestualizzazione dei temi: non si tratta di argomenti, che sarebbero facilmente contestabili, ma di slogan. Né più né meno di quanto accadeva nella Germania nazista o, ancor prima, nell’Italia degli untori. E questa è una strategia: ben sanno i cattivi maestri che è più semplice impartire una verità da assimilare senza fatica, senza il peso di dover aprire e leggere documenti e libri, che non trovare argomentazioni che potrebbero essere confutate. Gli slogan, in questo mondo di persone che non leggono neanche un articolo per intero, sono ottimi per creare coesione senza fatica: lo abbiamo visto nei campus americani, come la Columbia University. In Italia non è raro trovare anche gli aspiranti cattivi maestri: li si riconosce facilmente perché siedono nei salotti tv e pontificano probabilmente sperando in una candidatura alle elezioni. Per carità, nessuno ritiene di essere antisemita, sono tutti solo antisionisti, anche se capita che chiudano un occhio e talvolta due quando si verificano incidenti che coinvolgono studenti o docenti ebrei o israeliani. Mi chiedo come possano ritenere di poter arginare il fenomeno, quando i loro insegnamenti stanno portando il mondo alla deriva.
Un mondo che viene diviso in buoni e cattivi, dove i buoni sono i popoli che crediamo oppressi e i cattivi i popoli che crediamo oppressori. Davvero Hamas, Hezbollah, il Jihad Islamico, gli ayatollah, i talebani e forse anche Isis sono i legittimi rappresentanti dei popoli oppressi? Non è che siano piuttosto loro stessi gli oppressori? Cosa direbbero a tal proposito le donne iraniane, pachistane, afghane, sudanesi? Quando i nostri studenti inneggiano ai missili iraniani su Israele, cosa direbbero ai genitori, agli amici, di Nika Shakarami, la ragazzina iraniana di sedici anni che, per aver partecipato a una protesta contro l’imposizione del velo, è stata uccisa da tre membri della sicurezza carceraria dopo essere stata violentata? I giovani studenti di liceo e i giovani universitari, che ascoltano narrazioni sull’occidente degenere e guerrafondaio, pendono dalle labbra dei loro docenti perché è innato nei giovani il senso di giustizia, non dovremmo offrire loro la possibilità di crearsi una conoscenza a tutto tondo? Se non altro per evitare che molti finiscano col cadere nella rete, nel vero senso della parola: basti pensare, come suggerisce il sociologo Renzo Guolo, che il jihad mediatico attira un pubblico sempre più vasto, sempre più giovane, sempre più occidentale. Non per nulla tra le manifestazioni degli studenti alla Sapienza, come nei campus americani, si sono viste persone che nulla avevano a che fare con gli studi, ma che appartenevano a organizzazioni jihadiste. Erano lì, sono lì per reclutare. Se sino a pochi anni fa le banlieue, le periferie degradate, erano i luoghi privilegiati per reclutare i più diseredati, ora i jihadisti hanno fatto un enorme balzo in avanti. Conquistando i professori, stanno conquistando l’élite di domani; conquistando i campus americani stanno conquistando figlie e figli di papà che sborsano per loro quasi 60 mila dollari all’anno per la retta universitaria, escluso l’alloggio. Pensare che Hamas e gli altri gruppi islamisti, ovvero di coloro i quali usano l’islam per scopi politici, saranno sazi non appena eliminato Israele è una pia illusione. Se così fosse per quale motivo Saddam Hussein e Khomeini si sono fatti la guerra? Per quali motivi sono scoppiate le guerre in Bosnia, in Somalia, in Sudan, in Rwanda? C’erano forse ebrei interessati a quelle terre? Ma non chiediamolo ai cattivi maestri perché alzerebbero le spalle o ribatterebbero: “E voi, quanti ne avete uccisi in Palestina?”. Voi, chi? Ecco che si fa evidente l’antisemitismo dei cattivi maestri che, forse, non sono solo antisionisti. E tornano le vecchie medievali accuse del sangue.
Intanto i professori e gli studenti ebrei nei campus americani non possono raggiungere le aule, gli studenti ebrei e israeliani in Italia cominciano a provare paura. Io l’ho provata, la prima volta nel 2005. Proprio l’anno in cui ci fu il completo sgombero degli insediamenti ebraici dalla Striscia di Gaza subii un’aggressione in aula da parte dei collettivi studenteschi per aver invitato a lezione il dott. Elazar Cohen, israeliano. A molti parve che fosse colpa mia se gruppi di studenti erano entrati nella mia aula con fumogeni, striscioni e mazze per impedire a un ebreo israeliano di parlare. D’altra parte era vero: ero stata io a invitare il dott. Cohen. Gli stessi “studenti” continuarono a presentarsi in aula per controllarmi nel caso le mie lezioni fossero pericolose arringhe sioniste. Una volta non resistettero sino alla fine: stavo trattando delle similitudini del Padre Nostro con le preghiere ebraiche e della moltitudine di maestri Rabbini in grado di operare miracoli. Di fatto, però, sono sempre entrata in aula con la paura. Per cui capisco questi studenti, in particolar modo gli israeliani, che temono persino di rivolgersi alle autorità accademiche, anche se mi sento vivamente di suggerirglielo: la situazione è oltremodo degenerata, ma sono certa che possano contare sulla maggioranza dei docenti, magari silente, ma comunque contraria al riemergere di questa follia. Purtroppo la strada per cambiare le cose non potrà essere breve: occorre creare un ambiente educativo sano, non violento, realmente democratico e consapevole del fatto che il jihadismo oggi non è diverso dal nazismo di ieri. Forse addirittura peggiore. Occorreranno anni, se non decenni. Gli insegnanti, dalla primaria sino all’università, dovrebbero – tutti – tornare a essere guide in grado di condurre i discenti alla ricerca, scendendo dalle barricate. Perché l’unica barriera da abbattere è quella dell’ignoranza. Per farlo, i nostri ministri (Istruzione e Università) potrebbero cominciare con l’inserire insegnamenti su Israele, sulla storia d’Israele, sulla letteratura israeliana e sull’antisemitismo, nei corsi di Scienze della formazione primaria e tra i cfu obbligatori per poter accedere all’abilitazione all’insegnamento. Con una particolare attenzione, legata ovviamente alla scelta degli insegnanti. Giusto per non ripetere gli errori delle ormai inutili Giornate della memoria durante le quali a finire sul banco degli imputati sono sempre più spesso gli ebrei al posto dei nazifascisti. E forse dovremmo dare uno sguardo a chi ha ormai un’esperienza pluridecennale nel contrasto all’antisemitismo.
3) Prendiamo ad esempio la Germania, nostra alleata nella Seconda guerra mondiale eppure nei decenni successivi così diversa. Ne ho già trattato in un precedente articolo, sempre sul Foglio, parlando dei tifosi di calcio tedeschi. Attualmente la Germania è considerata il “secondo migliore amico” di Israele dopo gli Stati Uniti. Va tuttavia tenuto presente che il sostegno militare americano a Israele non è cominciato nel 1948, ma soltanto dopo la Guerra dei sei giorni (1967). Eppure nei primi anni della sua esistenza, Israele dovette affrontare non soltanto la guerra d’indipendenza, neppure soltanto la crisi di Suez: occorreva trovare una sistemazione ai profughi ebrei fuggiti dall’Europa e dai paesi arabi, era necessario costruire un sistema economico in grado di reggere al peso di uno stato appena nato, dovevano essere edificate le industrie, le case, le strade, le scuole. Si trattava di compiti enormi e la Repubblica federale tedesca, fondata nel 1949 come stato nato dalle ceneri del regime nazista, fornì un aiuto indispensabile. Tra il 1953 e il 1965, quando Germania e Israele stabilirono formalmente relazioni diplomatiche, la Germania occidentale fu l’unico paese a fornire a Israele: 1) aiuto economico tramite l’Accordo sulle riparazioni di guerra, 2) aiuto militare segreto per gli sforzi bellici e 3) una generosa sovvenzione finanziaria concordata nel 1960.
Come ci racconta Jelinek, il principale negoziatore israeliano dell’epoca – Nahum Goldmann – definì l’accordo “una vera e propria salvezza” per Israele. Gli aiuti emessi includevano acciaio, attrezzature per impianti industriali e fabbriche, navi, macchinari e molto altro. Presto sarebbero seguiti ulteriori aiuti per la ricostruzione economica.
Nel dicembre 1957, Shimon Peres, allora vice ministro della Difesa, fece visita al ministro della Difesa della Germania occidentale, Franz Josef Strauss. Di questo incontro Peres scrisse: “Nel giro di pochi mesi dal nostro primo incontro, attrezzature di grande valore iniziarono ad arrivare all’esercito israeliano. Consisteva in eccedenze dell’esercito tedesco e attrezzature prodotte in Germania… Abbiamo ottenuto munizioni, dispositivi di addestramento, elicotteri, pezzi di ricambio e molti altri articoli. La qualità era eccellente e le quantità considerevoli”.
Era ovvio il motivo per cui i tedeschi operavano in questo modo: avevano bisogno di riabilitazione, visto che la dittatura nazista era finita solo da pochi anni. E la popolazione tedesca fu fortemente coinvolta in questo processo. Perché in Italia, paese alleato alla Germania in quella sciagurata guerra, non accadde lo stesso? Perché abbiamo continuato a cullarci nell’idea di essere “italiani brava gente” e, di fatto, con la nostra inerzia, abbiamo permesso che ignoranza e antisemitismo finissero col tornare alla ribalta? Già, mentre la Germania muoveva i passi verso la propria “redenzione”, l’Italia siglava accordi con i palestinesi. Leggasi Lodo Moro.
C’è qualcosa su cui desidero attirare la vostra attenzione, per comprendere appieno, e si chiama: Deutsche-Israelische Schulbuchkommission, ovvero Commissione israelo-tedesca per i libri di testo. La prima commissione, in Germania, ebbe luogo nel 1981 presso l’Istituto Georg Eckert di Braunschweig: un centro specializzato nella ricerca sui testi scolastici e i media educativi. Il suo corrispettivo in Israele ha visto la luce nel 1984, per iniziativa dell’Università di Haifa. Compito delle commissioni era ed è quello di presentare raccomandazioni – in tedesco e in ebraico – per migliorare la rappresentazione della storia ebraica e d’Israele nei libri di testo tedeschi, nonché delle rappresentazioni della Germania nei libri scolastici israeliani. Dal 2009 all’Università di Haifa è subentrato l’istituto Mofet di Tel Aviv e i gruppi di lavoro sono stati guidati da ispettori del ministero dell’Istruzione di Gerusalemme. Le ultime raccomandazioni congiunte tedesco-israeliane sui libri di testo sono state pubblicate nel 2017 a Gottingen, ma i gruppi di lavoro continuano a essere in contatto e a lavorare insieme, coinvolgendo accademici, scienziati, insegnanti di ogni ordine e grado e rappresentanti delle autorità educative.
Questo non significa che i problemi in Germania siano scomparsi, a maggior ragione con l’importante immigrazione islamica nel paese, ma il monitoraggio è costante e l’attenzione è trasversalmente presente. La storia degli ebrei in Germania viene insegnata sin dalla scuola primaria e, nel ginnasio, compare anche la storia dello Stato d’Israele. Allo stesso modo viene insegnato, soprattutto nelle ore di Educazione civica, come riconoscere l’antisemitismo in tutte le sue forme e come riconoscere la continuità esistente dall’epoca nazista sino alle manifestazioni dell’antisemitismo islamista di oggi. In particolare le “Raccomandazioni per gli insegnanti”, che ogni Land prepara per le scuole, sottolineano come non sia proficuo concentrarsi sul tema soltanto in occasione di momenti particolari, come il Giorno della memoria o il Giorno d’Israele (quando si festeggia la ricorrenza della nascita dello Stato ebraico). Israele, l’ebraismo e la lotta all’antisemitismo devono rientrare nella quotidianità. Non stupisce, pertanto, che nelle scuole tedesche si sia recentemente trattato il tema dello sviluppo dell’antisemitismo tra i negazionisti della pandemia da Coronavirus o nei testi del genere musicale Gangsta-Rap. Come molto significativi sono anche i momenti del progetto “incontra un ebreo”, dove non soltanto i sopravvissuti alla Shoah incontrano le scolaresche, ma anche giovani che trascorrono nelle classi qualche ora in maniera del tutto conviviale a parlare del più e del meno, raccontando ad esempio delle similitudini tra il cibo kosher e quello halal. Ma facciamo un passo indietro.
Con la caduta del Muro di Berlino, lo scioglimento della Repubblica democratica tedesca, filo-araba e filo-palestinese, e la sua annessione alla Repubblica federale, la Germania riconquista di fatto una posizione importante in un’Europa non più divisa. Parallelamente a ciò, agli inizi degli anni Novanta, vede la luce il cosiddetto processo di pace tra israeliani e palestinesi e la Germania investe non soltanto in speranza, ma anche in denaro per supportare gli accordi di Oslo. D’altra parte, come ben sappiamo, il processo si interrompe nel 2000, quando i negoziati tra Ehud Barak e Yasser Arafat si concludono con un niente di fatto a Camp David.
Il fatto che la sicurezza di Israele sia la pietra angolare della ragion di stato della Germania – come affermato dalla cancelliera Merkel nel 2008 e ribadito da Scholz a fine 2023 – ebbe inizio in quel momento, durante la Seconda Intifada, cominciata dopo il fallimento degli Accordi di Oslo. Rudolf Dressler, all’epoca ambasciatore tedesco in Israele, scrisse che, dal punto di vista tedesco, una soluzione al conflitto poteva essere raggiunta solo se si fosse garantita la sicurezza di Israele contro il terrorismo: la sicurezza di Israele, aveva detto Dressler, doveva diventare centrale nella “ragion di stato” della Germania. E così è stato.
Il contrasto all’antisemitismo è lasciato soltanto alla scuola? No. “Se non condividi i nostri valori, non puoi ottenere un passaporto tedesco” ha recentemente affermato la ministra degli Interni Nancy Faeser (Spd), la quale ha aggiunto: “Dal crimine tedesco contro l’umanità, dalla Shoah, deriva la nostra particolare responsabilità per la protezione degli ebrei e per la protezione dello Stato di Israele. Questa responsabilità fa parte della nostra identità oggi. Chi vuole diventare tedesco deve sapere cosa significa e riconoscere la responsabilità della Germania”. Questo impegno deve essere “chiaro e credibile”. E così il test per ottenere la cittadinanza tedesca conterrà dei quesiti vincolanti, proprio su Israele e sulla vita ebraica. Ad esempio come si chiama la casa di preghiera ebraica, quando è stato fondato lo Stato di Israele, perché la Germania ha una particolare responsabilità nei confronti di Israele, da quando esistono le comunità ebraiche in Germania, come viene punita la negazione dell’Olocausto o la negazione all’esistenza d’Israele e chi può diventare membro dei circa 40 club sportivi ebraici del Maccabi. Non dimentichiamo che, dal 7 ottobre, reclamare una Palestina “dal fiume al mare”, precludendo così la possibilità a Israele di esistere, può costare – in Germania – fino a 3 anni di prigione. E qui le leggi vengono fatte rispettare: siamo in Germania! Magari qualcosa dovremmo imparare dai nostri amici tedeschi, anche se i cattivi maestri – e da questo li riconosceremo – direbbero che la Germania è complice del genocidio palestinese e che i suoi approcci post 1949 al problema non sono altro che la dimostrazione del fatto che i tedeschi continuano a essere nazisti, identificando nelle linee guida per gli insegnanti, nei suggerimenti per i libri di testo, nelle specifiche domande per l’ottenimento della cittadinanza e nella severità nei confronti di slogan “innocenti” la riprova delle loro affermazioni. In due parole il gioco è svelato: la protezione della vita ebraica e dell’esistenza dello Stato d’Israele viene astutamente manipolata in modo tale da suggerire il rovesciamento del problema. Gli ebrei e chi li sostiene si trasformano in nazisti, mentre gli emuli e sostenitori degli ex alleati dei nazisti (Amin al-Husayini e le sue SS islamiche) diventano i partigiani di oggi. Se volessimo davvero debellare questo virus, dovremmo ricominciare dalla formazione degli insegnanti. Altra strada non c’è.