Fonte:
Libero
Autore:
Claudia Osmetti
Uno sportello per aiutare i bimbi ebrei dopo il 7 ottobre
La Comunità: sono confusi e si sentono poco compresi
Il 7 ottobre, l’altra faccia. Quella a cui non pensi, ma che è ugualmente terribile. I bambini, i ragazzini, gli adolescenti della comunità ebraica di Milano, che vivono qui, da noi, in Italia, lontano dal massacro di Kfar Aza, di Be’eri, della furia jihadista al rave del Neveg, epperò comunque scossi, sconvolti. Dalla crudeltà dei tagliagole di Hamas prima (cioè cinque mesi fa) e dal crescente senso d’insicurezza dopo (cioè adesso): colpa del rigurgito antisemita degli ultimi tempi; la bandiera israeliana bruciata in piazza, magari assieme al manichino del premier Benjamin Netanyahu; l’odio che si rincorre sui social; le manifestazioni fiume, ogni sabato, per la Palestina e contro Israele, contro gli ebrei, neanche fossimo di nuovo nel ’38. Sarebbe (è) insostenibile per chiunque, figuriamoci per loro. Bimbi che vanno ancora all’asilo, alle elementari, quelli più grandicelli che frequentano le medie: «Ce lo siamo chiesti subito, adesso cosa facciamo?», racconta Dalia Gubbay che è una donna molto cortese e soprattutto è l’assessore alla Scuola nella giunta della comunità ebraica milanese, «come gestiamo questa situazione? È stato un fulmine a ciel sereno». Tuttavia Gubbay una strada l’ha intrapresa. Quella del dialogo e di un progetto, a tutto tondo, per quei ragazzi che (sottolinea lei) «vanno dal nido alla quinta liceo»: incontri in classe (a partire dalla 4a elementare) con gli psicologi dell’emergenza guidati dal professor Fabio Sbattella (università Cattolica) e uno sportello, lo “sportello resilienza”, aperto tutti i giorni dalle 15 alle 17, non solo per gli studenti della Scuola ebraica ma pure per le loro famiglie, un supporto, un aiuto, un sostegno. «Con lo sportello siamo partiti da poco, non è ancora possibile fare un bilancio perché occorre aspettare», continua Gubbay, «nelle aule abbiamo iniziato a dicembre. L’anno scorso intere famiglie sono venute a stare a Milano da tel Aviv, e sono arrivate terrorizzate. Qui avevano famigliari o amici. Nel momento massimo abbiamo ospitato una cinquantina di bambini nelle nostre classi, alcuni di loro parlavano solo ebraico. Ci siamo resi conto che dovevamo pensare in special modo a quelli degli ordini più piccoli». I più piccini, insomma. «il 7 ottobre è stato un unicum. Non è un caso che il team di Sbatella ci ha riferito che i ragazzi sono reattivi e che hanno bisogno di parlare. Magari coi genitori è più difficile: dopotutto noi stiamo tutto il giorno a controllare le notizie, col telefonino aperto su Telegram anche quando siamo fuori con le amiche. I ragazzi, invece, hanno anche necessità di “staccare”». Da quel pensiero fisso, ripreso ogni sera nei servizi del telegiornale, gli aggiornamenti da Gaza, gli appelli delle università il nodo degli ostaggi, ma-quando-finirà-tutto-questo? «il 7 ottobre», spiega Sbatella a Pagine ebraiche, il mensile della comunità, «ha rappresentato un capovolgimento della sensazione di sicurezza. Non solo in Israele, ma anche per la comunità ebraica qui. Da esterni abbiamo visto il senso di profonda identità tra chi è qui e chi è in Israele, la sensazione molto viva di far parte di una storia comune. Abbiamo registrato il turbamento dei giovani e il loro stupore davanti alla sensazione di essere poco compresi fuori dalla comunità stessa. il dolore di vedere un’ampia adesione alla propaganda palestinese e il disorientamento cognitivo di fronte a queste emozioni». «Ci sono famiglie che hanno paura a tornare in Israele», aggiunge Gubbay, «altre che ne hanno bisogno. La classe di mia figlia, per esempio, sarebbe dovuta andarci a fine 2023, non è stato possibile. E si chiedono quando lo sarà di nuovo. Per i ragazzi del liceo questi sono anni difficili, lo sono stati per tutti, è una “generazione in crisi”: eppure con questi psicologi si sono trovati bene, si sono aperti, hanno e stanno parlando. C’è anche chi sta zitto, ovviamente, però sente il compagno di banco». E anche solo quello, alla fine, una mano la dà: «Serve a superare la sensazione di confusione, di sentirsi sbagliati o il pudore del proprio dolore o della propria rabbia», chiosa Sbattella. «Ci siamo accorti», conclude invece Gubbay, «che il passo successivo è dare ai nostri ragazzi gli strumenti per rispondere alla propaganda che in questi mesi è stata versata, a cominciare dagli approfondimenti di storia. Si sentono ripetere una serie di inesattezze e sono spaesati»