Fonte:
Il Domani
Autore:
Giovanni Maria Vian
La radice profonda dello scontro fra Israele e Vaticano
Tra le conseguenze dello spaventoso incendio che sta divampando nel vicino oriente — in Israele e in Palestina, soprattutto a Gaza, ma non solo, con molte migliaia di vittime, in gran parte civili—vi è il congelamento dei rapporti tra ebrei e cristiani, da sempre difficili. Insieme alla perdita intollerabile di vite umane, il danno è enorme perché le relazioni tra questi due mondi religiosi sembrano essere arretrate di decenni. Solo alcune voci, purtroppo minoritarie, si sono levate per denunciarlo. Stavolta la preoccupazione è forse più da parte ebraica — com’è apparso dall’intervento lucido e doloroso del rabbino capo di Roma intervenuto un mese fa all’università Gregoriana — che da parte cristiana. E questo è paradossalmente un frutto positivo dell’avvicinamento, pur spigoloso, degli ultimi anni. Il nodo è notoriamente intricatissimo. Sul piano politico, senza dubbio, ma forse ancor più su quello religioso. I due piani interferiscono tra loro sin dalle origini, quasi venti secoli fa, con la predicazione del maestro di Nazaret da una parte, e dall’altra, un quarantennio più tardi, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme a opera dei romani. Che poi, al tempo dell’imperatore Adriano, debellarono l’ultima rivolta giudaica. Con effetti duraturi sui rapporti tra ebrei e cristiani, in costante competizione tra loro, e sulla trasformazione di questi due mondi. Basti ricordare che dal 135 il nome stesso di Gerusalemme, divenuto Aelia Capitolina, sparì per un paio di secoli e riaffiorò, dopo la terribile persecuzione dioclezianea, in ambito cristiano al tempo di Costantino. Quando da molto tempo la chiesa aveva respinto l’eresia di Marcione che dal cristianesimo avrebbe voluto cancellare ogni traccia di ebraismo: una tendenza che tende però a ripresentarsi periodicamente, come ha ricordato Ratzinger nel 2017. Per la fede cristiana, nonostante secoli di antigiudaismo anche persecutorio, il rapporto con l’ebraismo – «radice santa» lo definisce san Paolo – è sempre rimasto ineliminabile ed essenziale. La Shoah ha accelerato un riavvicinamento che per la chiesa cattolica è stato consacrato nel 1965 dal concilio e si è sommato nel 1993 al riconoscimento dello stato di Israele da parte della Santa sede, pur in un contesto geopolitico che è stato reso sempre più conflittuale dall’inerzia interessata, anche da parte dei paesi musulmani, nei confronti della questione palestinese. Ostilità e diffidenza, ma soprattutto ignoranza reciproca, mai scomparse, restano presenti sia negli ebrei che nei cristiani, come ha mostrato la storia degli ultimi decenni. Eppure i passi avanti sono stati reali e consistenti. Ma ora le conseguenze dell’ultimo conflitto, lungamente preparato da Hamas fino al feroce attacco del 7 ottobre, hanno di nuovo dato fiato a un antigiudaismo — anche religioso — in realtà persistente, e pernicioso per la stessa fede cristiana. A tutto questo si sono aggiunte ora le aspre reazioni da parte israeliana, ma più in generale ebraica, di fronte all’atteggiamento del pontefice e di molti esponenti cattolici, anche autorevoli, considerato non a torto squilibrato a danno di Israele. Molti fattori politici e geopolitici entrano certo a complicare una questione incandescente, ma la posta in gioco è altissima perché in radice si tratta della fede nell’unico Dio. Una fede che è appesantita da secoli di ostilità e che per questo esige una purificazione dei tre monoteismi — ebraico, cristiano, musulmano — da posizioni fondamentaliste e ideologiche.