Fonte:
Pagine Ebraiche
Accusata di plagio, criticata per la gestione degli episodi di antisemitismo nel suo campus, Claudine Gay ha annunciato ieri le proprie dimissioni dall’incarico di rettrice di Harvard. Prima donna di colore a guidare l’istituzione della Ivy League, Gay è rimasta “vittima di un fenomeno diffuso nelle università americane e nel mondo culturale americano: il politicamente corretto portato alle sue estreme conseguenze”, spiega a Pagine Ebraiche Gadi Luzzatto Voghera, direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano. Per lo storico, con un passato da docente nel programma della Boston University a Padova, si è diffuso oltreoceano “uno spirito censorio preoccupante. Nelle accademie, nelle scuole pubbliche e private, insegnanti di storia non possono più parlare liberamente di fatti storici come lo schiavismo, senza rischiare di essere accusati di usare un linguaggio inopportuno nei confronti di determinate minoranze. Senza rischiare di essere travolti dalla cosiddetta cancel culture”.
In questo clima si inserisce la risposta dell’ex rettrice di Harvard alla domanda se invocare il genocidio ebraico violi i codici di condotta dell’università. “Lei ha replicato: ‘dipende dal contesto’. Una cautela incomprensibile se non alla luce di questa paura di essere a propria volta cancellati”, afferma Luzzatto Voghera. Il problema degli Stati Uniti, aggiunge, è “culturale, è enorme e comincia a toccare anche noi. Siamo di fronte a una cancel culture che spinge verso un mondo comunitarista in cui tutte le comunità etniche e religiose si rinchiudono progressivamente in se stesse. Nel farlo, adottano un proprio linguaggio che le altre comunità però non riconoscono. E così ci si trova in una società in cui fra neri si possono dire certe cose, fra bianchi altre, fra ebrei altre ancora, e così via. Un fenomeno contrario a ogni forma di dialogo, di attività educativa, ma anche di riconoscimento della diversità dell’altro”.
Inoltre, in questo mondo comunitarista, rileva il direttore del Cdec, agli ebrei “non viene più riconosciuto il ruolo di minoranza discriminata per secoli, ma sono associati all’immagine dei bianchi oppressori”. Un quadro rovesciato in cui il mondo ebraico diventa così bersaglio di un antisemitismo che si autoassolve, come accaduto in diversi campus Usa.
“Tutto viene semplificato e il problema tocca anche le nostre università. Oggi per esempio l’idea è che o si è propalestinesi o si è fascisti. È una visione totalitaria della realtà, utilizzata nel mondo della cultura e dell’accademia italiana in maniera esplicita. E gli stessi che la invocano, allo stesso tempo si giustificano, dicendo: ‘Siamo noi quelli che difendono la libertà di espressione contro le lobby che ci impongono una narrazione standardizzata’. È una brutta china e la signora Gay è andata a sbatterci in maniera fragorosa”.
Sui movimenti propal e agli attacchi a Israele, il direttore del Cdec non vede una differenza rispetto al passato. “Se si va a leggere quanto veniva scritto nel 2014, nel 2006 o nel 1982, ci si accorge che la retorica si ripete. Chi sposa la causa palestinese non lo fa con l’interesse di risolvere il problema, ma ha solo bisogno di un tema di aggregazione. I palestinesi lo sono ciclicamente, ma lo sono state anche le donne iraniane di cui, non so perché, ora nessuno parla più“.