Fonte:
La Repubblica
Autore:
Riccardo Di Segni
La preghiera e l’azione
Caro Direttore, per chi ascolta le notizie sui conflitti in corso, dall’Ucraina a Israele-Palestina, e non rimane indifferente, dopo lo sgomento e la rabbia (magari a senso unico) è il senso di impotenza a emergere. Ognuno vorrebbe non apprendere certe notizie, non vedere certi spettacoli, augurarsi che tutto finisca quanto prima. Ma cosa si può fare se non gridare, partecipare a cortei, premere sul proprio governo? Sono strumenti poco efficaci rispetto ai poteri delle parti in conflitto. Però, almeno per chi crede, molto o solo un po’, c’è uno strumento importante di intervento, la preghiera. La preghiera veicola le aspirazioni del singolo, è efficace nell’unire un gruppo, esprime il dolore e chiede che sia confortato e gli sia posto fine; e chi prega ritiene e spera che la sua preghiera possa essere ascoltata e accolta. Se la preghiera è la voce dell’anima, l’espressione delle sue difficoltà e delle sue richieste, questo non significa però che automaticamente la preghiera sia un valore assoluto. Dipende da cosa si chiede. Si può pregare perla pace, che sembra una cosa bellissima, ma bisogna vedere di quale pace si tratti, se è una pace in cui il male sia sconfitto o una pace che pur di averla soddisfa gli aggressori e i violenti dopo che hanno rapinato, e lascia gli sconfitti feriti e offesi. Si può pregare perla rovina dei nemici, perla vittoria in battaglia, e tutto dipende da chi siano i nemici. Ognuno pretende di fare guerre giuste. Le guerre sono sempre un’offesa alla dignità umana, comportano morte e distruzione, e certamente vanno evitate, ma quando è in gioco la propria esistenza davanti a un nemico irriducibile l’alternativa pacifista è discutibile anche moralmente. Difficile dire che la sconfitta del nazismo, ad esempio, sia stata una sconfitta per tutti. Qualche volta qualcuno deve essere sconfitto, solo lui e per sempre. La preghiera è un’arma anche se non spara, e la sua moralità dipende dal suo contenuto. È bello vedere moltitudini che si raccolgono a chiedere la pace, che guardano oltre ai termini dei conflitti, che vogliono la fine delle sofferenze, ma bisogna valutare se guardare oltre non significa appiattire le differenze e fare tutti uguali; in ogni conflitto non ci sono tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra, ma certamente vi sono quelli più buoni e quelli più cattivi. La preghiera può diventare un alibi per scaricarsi la coscienza, per stabilire un’equidistanza inopportuna, per cancellare le valutazioni morali. Quando dopo l’uscita dall’Egitto gli ebrei si trovarono davanti al mare con l’esercito egiziano che premeva alle spalle per riportare i fuggitivi in schiavitù, Mosè si mise a pregare. E dal Cielo gli risposero: “cosa stai a gridare, parla ai figli di Israele, che partano” (Esodo 14:15). C’è il momento della preghiera e quello dell’azione. Si racconta che durante la Shoah un rabbino si rivolse a un vescovo in Francia per chiedergli aiuto per nascondere almeno i bambini. La risposta del vescovo fil “stiamo pregando per voi”. Il rabbino replicò che quanto alle preghiere anche lui e la sua comunità erano bravissimi a farle, ma quello era il momento di fare qualcosa (che poi effettivamente fu fatto). I profeti della Bibbia hanno severamente criticato una religione in cui gli atti formali non siano preceduti dal ravvedimento, dal riconoscimento delle colpe, dalla correzione delle opinioni sbagliate, iniziando da quelle proprie e continuando con quelle degli altri. Con queste premesse il valore della preghiera e dell’invocazione della pace crescerà, sarà più alto, più credibile, più efficace.
L’autore è il rabbino capo di Roma