22 Agosto 2022

Sinistra e antisionismo

Fonte:

La Repubblica, La Stampa

Autore:

Enrico Franceschini, Elena Loewenthal

La sinistra che attacca Israele

Gli attacchi a Israele da parte di due esponenti del Pd in lizza per le elezioni del 25 settembre, il segretario del partito in Basilicata Raffaele La Regina e la candidata in Veneto Rachele Scarpa, non sono un caso isolato. Appartengono a un contesto di opinioni assai diffuse nella sinistra italiana e in quella mondiale: polemiche analoghe sono sorte negli ultimi anni a Londra, quando Jeremy Corbyn era leader del Labour, e negli Stati Uniti con l’emergere della corrente radicale del partito democratico legata alle deputate Alexandria Ocasio-Ortez e Rashida Tlaib. Il nuovo leader laburista britannico Keir Starmer ha denunciato apertamente l’esistenza di posizione antisemite all’interno del proprio partito, espellendo i membri della Camera dei Comuni che le esprimevano, incluso il suo predecessore Corbyn. Joe Biden ha preso le distanze con fermezza dalle accuse a Israele di Ocasio-Ortez e Tlaib, impedendo che condizionassero la politica della Casa Bianca. Nel condannare le dichiarazioni di La Regina, che ha volontariamente ritirato la propria candidatura, e Scarpa, il leader del Pd Enrico Letta segue lo stesso solco. Ma una condanna non basta. Simili incidenti dovrebbero spingere i progressisti italiani a una riflessione più profonda sui motivi che li scatenano. Come ha fatto Starmer nel Regno Unito, equiparandol’antisionismo con l’antisemitismo e presentandolo come l’antitesi della tradizione laburista. Criticare il governo di Israele per la sua politica nei confronti dei palestinesi è legittimo: lo fanno del resto molti amici sinceri dello Stato ebraico, inclusa l’amministrazione Usa, e molti fra gli stessi israeliani, basta pensare alle posizioni prese nel corso del tempo da tre grandi scrittori come Amoz Oz, Abraham Yehoshua e David Grossman. O a quanto ha scritto nei giorni scorsi Bernard-Henry Lévy su questo giornale a proposito della recente guerra di Gaza: “Vorrei vedere più Atene che Sparta nell’Israele odierna”, sottolineando però che questo non sempre è possibile per l’unica democrazia di stampo occidentale di una regione in cui tutti gli altri volevano distruggerla. Negli attacchi a Israele della sinistra europea e americana, invece, traspare spesso una delegittimazione dell’esistenza di Israele, dietro la quale si intravedono i peggiori stereotipi sui banchieri ebrei padroni del pianeta. “L’antisionismo va equiparato all’antisemitismo”, ha detto Starmer schierandosi anche contro il movimento Bds (Boycott, Divestment and Sanctions), “perché nega il diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione. Paragona il sionismo al razzismo, si concentra ossessivamente sull’unico Stato degli ebrei al mondo e richiede ad esso degli standard a cui nessun altro Paese viene sottoposto”. Come scrive una giovane docente di storia della Sapienza, Alessandra Tarquini, nel saggio La sinistra italiana e gli ebrei , pubblicato dal Mulino nel 2019, il difficile rapporto fra la sinistra di tradizione marxista e gli ebrei riflette una inadeguatezza strutturale a riflettere sulla questione ebraica che ne inibisce la piena comprensione. A livello internazionale David Rich, direttore del Pears Institute for the Study of Antisemitism alla Birkbeck University di Londra e autore del saggio The left’s Jewish problem (Il problema ebraico della sinistra), va al nocciolo della questione: “C’è un vecchio pregiudizio che spinge alcuni progressisti, in tutto il mondo, a vedere negli ebrei e nello Stato ebraico la fonte di ogni male. L’antisemitismo di sinistra non ha niente a che vedere con il ben noto, razzista e violento antisemitismo di destra. Deriva piuttosto da un modello di pensiero che divide il mondo in oppressi e oppressori, assegnando quest’ultima etichetta agli ebrei, visti come popolo ricco, potente e manipolatore. È un sentimento che sconfina in molto più di una legittima opposizione alle politiche dello Stato ebraico, incorporando gli antichi stereotipi antisemiti e le classiche teorie della cospirazione”. Solo riconoscendo che un atteggiamento del genere esiste, la sinistra italiana può risolvere il problema.

Enrico Franceschini – La Repubblica

L’alibi dell’antisionismo

Per quanto possa sembrare approssimativa o pretestuosa, l’equazione antisionismo uguale antisemitismo ha una sua ragion d’essere tanto profonda quanto coerente sulla quale, alla luce del recente subbuglio fra le fila del Partito Democratico, val la pena tentare un poco di chiarezza. Dichiararsi antisionisti (con magari la premessa cautelativa «però non ho nulla contro gli ebrei…») è prima di tutto un goffo anacronismo. Il sionismo, nato intorno alla metà dell’Ottocento (e codificato dopo qualche anno da Theodor Herzl) è di fatto un movimento risorgimentale che auspica la costruzione di un focolare nazionale per il popolo ebraico con l’obiettivo per un verso di strapparlo al suo destino di paria fra le nazioni, oggetto di emarginazione e persecuzioni perpetrate in nome della sua diversità, per l’altra di normalizzare questo destino riportando i figli d’Israele a un’autodeterminazione che in quell’epoca divenne un diritto per tutti i popoli. Dirsi antisionisti è anacronistico perché è come dirsi antirisorgimentali, ma anche perché ormai da decenni l’obiettivo del sionismo, cioè la creazione di uno stato ebraico, è raggiunto: lo stato d’Israele esiste dal maggio del 1948. Anzi, da un po’ prima. Israele è infatti uno dei pochi stati al mondo nato sulla scorta di una votazione democratica: la risoluzione Onu del 29 novembre del 1947 che sancì la spartizione della Palestina in due stati palestinesi – uno palestinese arabo e uno palestinese ebraico. Israele non è nato a causa della Shoah, come incongruo risarcimento agli ebrei sterminati. È nato nonostante la Shoah, che ha portato via un capitale incalcolabile di risorse umane, di vite. Nel 1947 esisteva in Palestina, oltre a una comunità ebraica storica lì da sempre, anche una società composita e strutturata frutto di diverse ondate migratorie a partire dalla prima metà del XIX secolo, con Università (quella di Gerusalemme è fondata nel 1925), settori produttivi, sistema sanitario, servizi postali e tanto altro. Lo stato d’Israele, dichiarato nel maggio del 1948, non nasce affatto dal nulla, ma da quel mondo già formato e vivo; e in virtù della risoluzione Onu, salutata con gioia dal fronte ebraico e rinnegata da quello arabo. Oltre che un anacronismo, l’antisionismo si configura come un pregiudizio. Per due ragioni fondamentali. Il sionismo è un grande movimento di pensiero e azione, è di fatto il risultato dell’incontro fra ebraismo e modernità: l’idea che l’antisemitismo è irriducibile e solo conquistando l’autonomia politica il popolo ebraico potrà sottrarsi al suo giogo. Non a caso, Theodor Herzl elabora la sua idea di risorgimento ebraico dopo aver assistito al processo Dreyfus – l’emblema stesso del moderno pregiudizio antisemita, che darà poi la terribile prova dei campi di sterminio. Negare la legittimità del sionismo significa relegare tutti gli ebrei (israeliani o diasporici che siano) a quel destino di popolo dannato, privo dei diritti fondamentali – primo di tutto quelli della libertà e dell’autodeterminazione. Significa anche un’altra cosa: la convinzione che se Israele non ci fosse tutti i problemi del Medio Oriente, tutti i conflitti si risolverebbero in un batter d’occhio. Come se Israele portasse in sé un peccato originale primigenio: quello di esserci. Anche su questo fronte, la storia di questi ultimi anni ha saputo dimostrare che non è così: quello scacchiere macro regionale sta cambiando, è mobile e imprevedibile – a prescindere dalla presenza di uno stato come Israele, che copre un territorio grande non più della Lombardia. In sostanza, mettere in discussione l’esistenza stessa dello stato ebraico è né più né meno che un pregiudizio, fondato su un’errata percezione della storia e della realtà. Il che naturalmente non significa che lo stato d’Israele non possa essere oggetto di critiche, anche pesanti. Purché non venga messo in discussione, però, il suo diritto all’esistenza, tanto legittimo quanto storicamente sancito.

Elena Loewenthal – La Stampa