Fonte:
Osservatorio antisemitismo
Autore:
Alberto De Antoni
I becchini. L’ultimo inverno della Repubblica di Weimar, Bompiani; Morte della democrazia. L’ascesa di Hitler e il crollo della Repubblica di Weimar, Einaudi; Il massacro di Addis Abeba, Rizzoli
Tre saggi si sono aggiunti di recente in Italia all’immensa bibliografia sulla repubblica di Weimar per contribuire alla comprensione del crollo di una delle democrazia più avanzate d’Europa e all’avvento della più nefasta delle dittature del Novecento. I titoli, però, posseggono un valore molto malaugurante soprattutto se letti in relazione con l’attuale crisi della politica un po’ ovunque nel mondo e in particolare nei singoli Stati della comunità europea dove movimenti quantunque non apertamente fascisti portano in sé valori e parole d’ordine classificabili come tali, soprattutto nella ricerca del leader carismatico, nelle tematiche cosiddette identitarie e nel patriottismo xenofobo.
Il primo, R. Barth, – H. Friederichs, I becchini. L’ultimo inverno della Repubblica di Weimar, Bompiani (ed. or., Die Totengraber. Der letze Winter der Weimarer Democratie, Frankfurt a.M., Fischer 2018), è una ricostruzione evenemenziale, giorno dopo giorno, dell’ultimo inverno della democrazia weimariana prima che, nel gennaio del 1933, Hitler diventasse capo del governo. Si tratta di un testo molto interessante, redatto con materiale inedito di lingua tedesca per ovvi motivi sconosciuto ai più e che varia dalle zuffe politiche di strada, molto spesso omicide, ai retroscena velleitari degli incontri riservati tra i membri delle élites. Su questa linea anche Siegmund Ginzberg, Sindrome 1933, Feltrinelli 2019, un agile testo di taglio giornalistico, che vorrebbe però, nell’analisi della Repubblica weimeriana, tracciare delle corrispondenze con la situazione italiana attuale. Al proposito e molto velocemente, non v’è dubbio che elementi di crisi delle istituzioni parlamentari e statali in diversi periodi storici possano essere accomunati sotto il segno della corruzione, della disaffezione del cittadino alla politica, dell’ambizione più cinica, dell’intrigo salottiero fine a se stesso, dei forti conflitti d’interesse e più in generale di un sorta di irresponsabile miopia politica da parte di tutti i soggetti pubblici, ma i paragoni posseggono sempre un buon grado di aleatorietà: per fortuna al giorno d’oggi la violenza dei reparti paramilitari, il revanscismo nazionalistico e le ideologie totalitarie sembrano essere escluse dal confronto quotidiano. Il terzo, B. Carter Hett, Morte della democrazia. L’ascesa di Hitler e il crollo della Repubblica di Weimar, Einaudi (ed. or., The Death of Democracy. Hitler’s Rise to Power and the Downfall of the Weimer Republic, New York, Henry Holt 2018), ha valore di sintesi e rappresenta un aggiornamento, opera di un accademico, degli studi storici su Weimar, un testo anche utile per muoversi all’interno di una bibliografia non sempre discernibile.
Due però i punti che la pur vastissima critica storiografica non ha preso in considerazione e lasciano spazi di incertezza sia nell’interpretazione del periodo sia per una tipologizzazione del fenomeno fascista. È luogo comune infatti operare una distinzione tra il nazismo e i movimenti fascisti europei, sia nella loro dimensione maggioritaria o vincente come quella italiana e spagnola, sia in quella minoritaria come quella belga o olandese, ad es. Ciò deriva, oltre a una comprensibile contestualizzazione, anche a una sottile e peraltro riuscita operazione compiuta un po’ ovunque nell’Europa del dopoguerra dal neo-fascismo volta a allontanare se stesso dagli incommensurabili e soprattutto ingiustificabili crimini nazisti. Oggi, però, alla luce di pluridecennali studi non è più possibile accettare questa interpretazione: fascismo e nazismo appartengono in toto alla medesima corrente politica e culturale irrazionale dei movimenti di massa nazionalistici che caratterizzarono l’Europa del primo dopoguerra. Differente se mai lo sviluppo del nazismo che, non solo riuscì a prendere il potere in seguito a libere elezioni democratiche, ma che durante il decennio di opposizione parlamentare riuscì a elaborare una propria dottrina ideologica rigorosamente dogmatica fondata, com’è noto, sulla pseudo-scienza della razza. A questo approdo teorico e a un’attiva collaborazione col nazismo all’insegna dell’antisemitismo più atroce arrivarono anche i movimenti fascisti europei durante il conflitto mondiale e sotto l’occupazione tedesca. Si pensi, ad es., alla Repubblica Sociale Italiana che certamente fu uno Stato fantoccio della Germania, ma che vide politiche della razza già attive da anni, in Italia con le note leggi del 1938, nella prassi già presenti nelle colonie africane: l’impiego di gas contro civili e l’uso di termini come “sterminio” nei confronti di popolazioni compaiono infatti nella guerra coloniale in Etiopia (si veda ad es, il recente Ian Campbell, Il massacro di Addis Abeba, Milano Rizzoli 2018). In altre parole: pur accettando come in buona fede – ma con beneficio d’inventario – le istanze dei movimenti nazionalistici radicali rivolte a superare l’estrema conflittualità sociale in nome del patriottismo, a recuperare o a formare l’unità territoriale-linguistica e a creare una comunità organica e militante fondata sulla dignità e sull’eguaglianza di tutti i cittadini all’interno di un riaffermato statalismo, com’è possibile che tutte queste correnti di pensiero, al di là di qualche momento di transitoria notorietà e delle ovvie differenze locali, non siano state in grado di affermare una linea “politica” – ça va sans dire – che non fosse basata sui tabù del sesso e del sangue e capaci solamente di confluire nel nazismo, paradigma, a questo punto, di ogni nazionalismo europeo?
Proprio alla luce di quest’ultima considerazione è il caso di domandarsi se il consenso di massa conseguito da taluni fascismi e oggi diventato una sorta di strumento mediatico per un subdolo recupero dell’autoaffermazione degli stessi negli anni Trenta e funzionale a una spregiudicata autoassoluzione di stampo storicistico, non debba essere considerato piuttosto al di fuori dei tradizionali canoni storiografici, con uno sguardo rivolto a materie differenti, come l’antropologia e il comparativismo culturale, ma anche a una logica o a una storia delle religioni, ad es. Dovrebbero giustificare ciò proprio i soggetti di questa massa, intesa politicamente come l’insieme dei cittadini non organizzati e sociologicamente come membri della metropoli atomizzata, piccola e media borghesia in crisi economica e di prestigio, società periferiche e scarsamente influenti come il mondo delle campagne e dei piccoli centri cittadini, gioventù in rivolta contro i padri, altri gruppi minoritari, etc. – in altre parole, una somma di individui travolti dalla modernità industriale e dal primo conflitto mondiale, sradicati dal proprio sistema di valori e da ogni sovrastruttura culturale costretti a ripensare e a ricostruire un nuovo modello di società proprio partendo dall’immediatezza della prima vita comunitaria. A quest’istinto primordiale i fascismi, seppure intuitivamente e con brutalità, seppero dare risposta, quantunque, alla prova dei fatti, la più folle che si potesse immaginare.