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Son of Saul: recensione del film in concorso al Festival di Cannes 2015
I Sondekommando erano gruppi di prigionieri che, nei campi di sterminio, erano obbligati a collaborare con i nazisti e le SS nei loro perversi disegni. Come ci spiega la didascalia che apre Son of Saul, esordio dell’ungherese László Nemes, già assistente di Bela Tarr, questi gruppi erano formati perlopiù da ebrei di robusta costituzione, destinati a lavorare intensamente all’eliminazione di altri ebrei per pochi mesi prima di essere eliminati a loro volta.
Dopo queste poche, essenziali coordinate, il film di Nemes si apre sul volto del protagonista, il Saul del titolo, che in breve capiamo essere uno dei Sonderkommando, impegnato come gli altri nelle operazioni che devono condurre centinaia di ebrei appena arrivati al campo nelle docce. Nemes ce lo racconta in primo piano, di volto o di nuca, tenendo il diaframma chiuso per rendere confuso e indistinto quel che avviene attorno a lui, con un piano sequenza che restituisce la concitazione aberrante di quella situazione e chiuso in un claustrofobico formato in 4:3; e così ce lo racconterà per tutta l’ora e 47 minuti di Son of Saul, racconto in tempo quasi reale di un orrore che pervade e di un angoscia che non lascia scampo, lontanissimo dalla retorica del dolore della maggior parte del cinema che ha raccontato lo sterminio degli ebrei e i campi di concentramento.
Non c’è tempo per il dolore, in Son of Saul. E l’orrore non è tanto quello delle aberrazioni che avvengono attorno al protagonista, quanto quello di una realtà infernale, dove si corre senza avere via di scampo, dove la sopravvivenza è mero gesto abitudinario e istintuale, poiché la vita, oramai, è da un altra parte. La vita è oramai un’illusione, un miraggio, come forse quello di Saul, che crede di vedere nel ragazzino sopravvissuto al gas (e prontamente soffocato manualmente da un medico nazista) un figlio che forse non ha mai avuto, o forse sì: poco importa. Perché quello che importa è che da quando quel ragazzo sopravvissuto per morire capita sotto gli occhi dell’uomo, questi si attiva mettendo a rischio la sua vita e quella dei suoi compagni per trafugarne il cadavere, cercare di dargli sepoltura, trovare un rabbino che ne celebri il funerale.
Comincia così la corsa senza fiato di Son of Saul, che segue il suo protagonista e noi con lui. Saul cerca di portare a termine il suo piano, con disperata determinazione, silenziosa e testarda, ma per farlo deve fare lo slalom tra gli orrori del campo che noi percepiamo in maniera ancora più terribile sullo sfondo: tra i corpi nudi a terra, le pile di abiti, il saccheggio dei beni, i depositi di valige, i forni crematori, i cumuli di ceneri da smaltire, i kapò, i nuovi arrivi di deportati, i colpi alla testa, le fosse comuni, i ricatti tra prigionieri, le gerarchie, i piani segreti di rivolta, le piccole e grandi corruzioni degli altri e delle anime.
Corre, Saul, senza respiro, perché solo i vivi respirano, e lui in fondo non lo è; sfiorando a più riprese quella morte alla quale comunque è destinato e che sta già vivendo nell’inferno del presente. “Deludi i vivi per dare la precedenza ai morti,” gli dice un altro prigioniero: ma resta da vedere chi è davvero vivo, e chi è già morto.
Corre, Saul. Si affanna, si arrangia, si barcamena, testardo: nell’illusione che dare sepoltura a quel ragazzo (a un ragazzo) possa essere un sollievo, una salvezza, il recupero di un’umanità abbrutita e umiliata, bruciata e dispersa. E noi corriamo con lui, storditi dal susseguirsi degli eventi e dal girone infernale senza fine che abita.
E sorride una volta sola, alla fine della corsa, di fronte alla sublimazione improvvisa e inaspettata dei suoi fantasmi, all’imminenza di una morte che è l’unica consolazione possibile di fronte a tanto orrore.
Federico Gironi, Comingsoon.it