30 Ottobre 2020

Mario Costa, Ebraismo e arte contemporanea, Mimesis, Milano 2020

Fonte:

www.artribune.com

Autore:

Marco Enrico Giacomelli

L’arte contemporanea come complotto ebraico

Chi c’è dietro l’arte contemporanea, dalle avanguardie in poi? Gli ebrei, e in particolare il divieto di idolatrare immagini. E’ la tesi shock contenuta nell’ultimo libro di Mario Costa

Mario Costa non è una star del panorama intellettuale ma ha comunque un curriculum di tutto rispetto in ambito editoriale e accademico. Non è un complottista culturalmente disagiato, non è un analfabeta funzionale. Per questo stupisce ancor di più il suo ultimo pamphlet.

FRANCIS BACON? IRRILEVANTE

La tesi è presto enunciata: “È mia opinione che la storia dell’arte contemporanea [sempre in corsivo, per tutto il libro, N.d.R.] sia stata, nella sua genesi e nei suoi sviluppi, radicalmente determinata dal divieto mosaico, rivolto al popolo ebraico, di non confezionare immagini per evitare di incorrere nella idolatria” (p. 8).

E fenomeni tipo Francis Bacon? Sono annoverati fra coloro che “passarono indifferenti attraverso le avanguardie per continuare nell’antica pratica della pittura figurativa, ma che non ebbero per questo alcun futuro e, in ultima analisi, alcuna importanza storica” (p. 14, n. 14). Qui potrebbe calare il sipario.

LA TESI DI MARIO COSTA

Ma concediamo a Costa il gusto di sviluppare la sua tesi, pur emendata da qualsivoglia controesempio che ne dimostri l’inconsistenza.

In buona sostanza, l’arte contemporanea inizia nel momento in cui, per riprendere Kant (o meglio: il Kant di Costa), la materia si sostituisce alla forma e il piacere al gusto. Cioè quando? Con l’Espressionismo astratto e la flatness propugnata da Clement Greenberg. Ma così ci si infila in un vicolo cieco, e allora subentrano (en passant: questa visione della storia [dell’arte] come linearità intenzionale è per lo meno semplicistica) i Combines Paintings di Rauschenberg, “vero snodo nella storia dell’arte contemporanea” (p. 24). Solo che siamo ancora nell’ambito dell’estetica etimologicamente intesa, e allora ecco che arrivano le Brillo Boxes di Andy Warhol, e il significato inizia a farla da padrone. Questa è l’arte contemporanea, che non è l’arte propriamente detta, perché quella, “quando c’era, non aveva alcun bisogno di spiegazioni” (p. 33) – con buona pace dell’iconologia.

Attenzione però: i più attenti si rammenteranno di Duchamp, che sul fronte del retinico qualcosa aveva detto. Ma il prode Costa se ne avvide già di suo, e infatti allarga la rete della pesca giudaica: “L’avanguardia, la pittura astratta, il Dadaismo e tutto quanto da esso deriva, è in sostanza, direttamente o indirettamente, un prodotto dell’ebraismo” (pp. 47-48, punteggiatura dell’autore). E da lì è semplice metterci dentro tutto, proprio tutto, dal Concettuale in avanti.

LA CIA, IL SIONISMO E ISIDORE ISOU

Tutto questo per non contravvenire a Dio via Mosè? Esatto.

E prima? “Gli ebrei sono totalmente assenti nell’arte” (p. 53). Poi, “con l’abolizione dei ghetti e con l’integrazione […] il problema dell’immagine sembra […] dimenticato” (p. 54) – puff! – e ancora dopo arriva – rullo di tamburi – il Sionismo e dunque la necessità di utilizzare “le immagini come strumento di propaganda” (p. 55).

A quel punto il problema dell’ortodossia torna a farsi sentire e quindi occorre “trasformare l’arte stessa, tutta quanta l’arte, in un’arte dall’essenza ebraica”. Una decisione presa in quale sede? Con una riunione clandestina? In Svizzera?

Ma non è finita qui. C’è ovviamente la CIA che, com’è noto (seriamente), ha supportato l’arte statunitense (“Ma meglio sarebbe dire: gli ebrei-americani”, p. 100, n. 63) in chiave anti-sovietica (con la collaborazione di Leo Castelli, “cioè Leo Krausz, figlio di un banchiere ebreo”, p. 98), ma soprattutto c’è l’ossessione vera di Mario Costa: Isidore Isou.

Direte voi: che c’entra il fondatore del Lettrismo? È lui il grande burattinaio. È lui che ha giudaizzato l’arte, “istintivamente o in maniera premeditata” (p. 118): “L’isouismo contiene in nuce tutto quanto è avvenuto nell’arte contemporanea” (p. 124, n. 98), proprio tutto, comprese l’Arte Povera e quella relazionale.

L’OPERA D’ARTE E L’AURA GIUDAICA

Qualcuno dirà, credendo di prendere in castagna il professor Costa: “Che ne dice però di tutta la questione tecnologica?”. Controbattere è per lui una quisquilia: il celeberrimo saggio di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), a saperlo leggere con l’adeguato sospetto, evidenzierebbe che “la tecnologia può valere come un potenziale territorio di una produzione, diversamente artistica, a disposizione della ortodossia ebraica” (pp. 127-128). Grazie a Benjamin, e a mostre come Software (mostra itinerante che è partita nel 1970 da dove, eh, da dove? Dal Jewish Museum di New York!), “gli ebrei capiscono veramente che la tecnologia è la carta vincente con cui giocare” (p. 135). Poi magari perdono, ma è un’altra storia.

NON SONO RAZZISTA MA…

Le pagine introduttive di questo libello sono un esempio perfetto della pratica argomentativa sintetizzabile in “non sono razzista ma…”, declinata però in senso antisemita: “Questo libro potrebbe far gridare all’antisemitismo […]; niente di tutto questo: gli ebrei mi sono perfettamente indifferenti” (p. 10).

Esempi di questo genere si rinvengono lungo tutto il libro: “I Rockfeller hanno un ‘segreto di famiglia’, cioè essi sono ebrei che fanno finta di essere cristiani” (p. 9, n. 2); “Sui legami tra la Kabbalah e le teorie e le tecniche di Tzara cfr. utilmente l’articolo […] del ‘The Occidental Observer’, un giornale in rete di estrema destra e antisemita” (p. 46, n. 9); “Warhol non sembra essere ebreo, ma non è raro trovare chi lo dà per tale […] Entrambi [Warhol e Rauschenberg, N.d.R.] non sono ebrei (?) ma è come se lo fossero” (pp. 92-93, n. 56).

COMPLOTTISMO ESTETICO

Ma ancora più allucinante è l’ossessione complottista che subisce Costa. La Conclusione del libro, per dire, è affidata alla frase seguente: “E dunque, la storia della cosiddetta arte contemporanea è stata quale il lavorio sotterraneo delle esigenze religiose ebraiche l’ha voluta” (p. 151). E ancora: “L’espressionismo astratto di Greenberg e Rosenberg, imposto a viva forza nel mondo occidentale […]” (p. 154).

Per chiudere con un sillogismo che si commenta da sé: “La Jewishness si travestì da avanguardia, tutti vollero fare dell’avanguardia, e tutti lavorarono al servizio della Jewishness” (p. 155) e con un dubbio serpeggiante espresso in tal modo: “L’attribuzione della identità ebraica a questo o a quell’artista, a questo o a quel critico, risulta spesso difficile perché a volte i nomi sono appena accennati (Sol per Solomon, Sam per Samuel, Ben per Beniamin, e così via) e soprattutto perché molti hanno del tutto cambiato il loro nome e molti altri hanno accuratamente tenuta nascosta la loro origine ebraica. La mia impressione è che la presenza degli ebrei nell’arte contemporanea sia molto più consistente di quanto appare qui” (p. 158, n. 5).

Si sostiene qui che gli ebrei siano assenti dal mondo dell’arte contemporanea? Ovviamente no. Che siano ininfluenti? Ovviamente no, ancora una volta. Ma la “profilazione razziale” è tutta un’altra questione. Così come la presunzione che vi sia un’unità di intenti da parte ebraica. Così come vi sia un intento tout court.

L’EDITORIA ITALIANA E LA PEER REVIEW

Il rischio di libri del genere è che funzionino retroattivamente e, nella fattispecie, dispieghino un’ombra sulla dignitosa produzione anteriore dell’autore.

Discorso solo simile concerne gli editori, nella fattispecie Mimesis. La collana in cui è pubblicato il libretto, Eterotopie, è diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna e si fregia di sottoporre a peer review i testi pubblicati. Sarebbe interessante capire chi ha letto queste pagine. Forse almeno uno dei direttori? Forse almeno un appartenente al comitato scientifico, composto da Pierandrea Amato, Stefano G. Azzarà, José Luis Villacanãs Berlanga, Oriana Binik, Giuseppe Di Giacomo, Raffaele Federici, Maurizio Guerri, Micaela Latini, Luca Marchetti, Valentina Tirloni e Jean-Jacques Wunenburger? Forse almeno un editor, che ha provato a concentrarsi sulla forma più che sul contenuto, ma con scarsissimo successo, cosicché sfilano “Derridà” (p. 41) e il facebookiano “” (p. 45, n. 7), “Shelling” (p. 51, n. 14) e “Chagal” (p. 59)…

Mario Costa – Ebraismo e arte contemporanea

Mimesis, Milano 2020

Pagg. 166, € 12

ISBN 9788857565750

mimesisedizioni.it