Fonte:
www.internazionale.i
Autore:
Wu Ming
Il mondo di QAnon: come entrarci, perché uscirne. Seconda parte
Pochi giorni dopo la prima puntata di quest’inchiesta, anche la testata americana Buzzfeed ha concluso che definire QAnon conspiracy theory è inadeguato. D’ora in poi i suoi giornalisti la chiameranno collective delusion, traducibile con delirio collettivo, a segnalare che siamo ben oltre semplici illazioni e teorie infondate. È una scelta rischiosa: non solo l’uso del linguaggio della psichiatria fuori dal suo ambito specifico asseconda la crescente patologizzazione e medicalizzazione della società e della vita, ma se l’intento è recuperare persone cadute nel rabbit hole (buca del coniglio), dire loro che sono delusional, che stanno delirando, può essere controproducente e irrigidirle nelle loro credenze.
Detto ciò, è innegabile che la narrazione di QAnon sia un’allucinazione condivisa. La domanda è: condivisa da quante persone? Secondo un sondaggio dell’istituto americano Civiq, pubblicato i primi di settembre e subito citato in molti articoli, il 16 per cento degli statunitensi dichiara di ritenere quel che dice QAnon mostly true (in gran parte vero); considerando solo i bianchi non-ispanici, il dato sale al 19 per cento; restringendo il focus agli elettori repubblicani, schizza addirittura al 33 per cento; tra i democratici si ferma al 5 per cento, dato comunque rilevante se ricordiamo di quale narrazione stiamo parlando. Se il campione interpellato è rappresentativo, a definire QAnon mostly true sono circa 52 milioni di persone.
Il dato suona implausibile, la risposta potrebbe essere meno univoca di quanto sembri e ogni sondaggio d’opinione va preso con le pinze. Quello di Civiq prevedeva anche l’opzione “alcune parti (della narrazione di QAnon) sono vere”. Risposta data da un altro 16 per cento degli interpellati, ma talmente vaga da risultare inservibile. Tutte le fantasticherie di complotto includono elementi di verità e QAnon non fa eccezione: il traffico di bambini esiste, gli abusi sui minori idem, la politica americana è influenzata da lobby e potentati vari, gran parte dell’informazione mainstream serve interessi politici ed economici, alcuni divi di Hollywood fanno parte di culti ammantati di segretezza (si pensi a Scientology), eccetera. Su queste premesse di verità QAnon innalza cattedrali gotiche di panzane. Chi ha risposto “some parts are true” a che si riferiva, alle premesse o alle panzane? Sondaggi impostati così servono a poco.
A ogni modo, non saranno 52 milioni, ma che la setta abbia milioni di seguaci è plausibile. Secondo il ricercatore canadese Marc-André Argentino, che ha studiato a lungo un campione di 179 gruppi Facebook dedicati a QAnon, da marzo a luglio 2020 il numero di iscritti complessivi è passato da 213mila a un milione e 400mila. Un aumento del 600 per cento. E stando a un’inchiesta interna di Facebook, alla metà di agosto 2020 – pochi giorni prima di una loro parziale messa al bando – i gruppi QAnon avevano in totale tre milioni di iscritti.
QAnon non fa proseliti solo tra persone ignoranti o stupide o con problemi di salute mentale. Porre la questione in questi termini è un grave errore. Altrettanto sbagliato è credere che la setta recluti solo a destra, tra fascisti e reazionari vari. Istruzione, intelligenza, sanità mentale, appartenenza alla sinistra: nulla di tutto questo rende automaticamente immuni a QAnon.
Un altro termine ambiguo e poco utile è irrazionale. Le idee che si formano nella testa di un credente in QAnon sono senz’altro irrazionali nei contenuti, basate su connessioni del tutto illogiche, ma il modo in cui si formano segue logiche precise. È il risultato di come funziona la nostra mente in certe condizioni.
L’amigdala sui social network durante il lockdown
Le neuroscienze localizzano quello che chiamiamo raziocinio nella corteccia cerebrale prefrontale. Un’area molto sottile – “Un fazzoletto grigio”, la definisce lo scrittore e divulgatore scientifico Massimo Polidoro – della neocorteccia, la parte del nostro cervello che si è evoluta più di recente. Le emozioni risiedono invece nel sistema limbico, un’area molto più antica che il neuroscienziato Paul D. MacLean – ricordato per la teoria del “cervello trino”, oggi superata – chiamava in modo efficace paleocervello. Nell’area limbica è molto importante l’amigdala, struttura che ha il compito di reagire ai pericoli e mandare segnali d’allarme a tutto il corpo.
In presenza di uno stimolo, prima entrano in gioco le funzioni del paleocervello, in particolare dell’amigdala, poi quelle della corteccia prefrontale. Quest’ultima interviene per vagliare i segnali d’allarme, regolare le emozioni, farci ragionare. Basandosi su questo, lo psicologo Daniel Kahneman ha introdotto la distinzione tra il “pensiero veloce” del sistema limbico (emotivo, impulsivo, automatico) e il “pensiero lento” della corteccia prefrontale (analitico, prudente, controllato).
Il pensiero veloce ci ha permesso di sopravvivere come specie. “I nostri antenati che vivevano nella savana”, scrive Polidoro nel suo Il mondo sottosopra, “erano alle prese con leoni, pantere e altre minacce alla propria sopravvivenza, e non potevano permettersi di riflettere troppo. Era necessario decidere in fretta se la sagoma scura che si vedeva tra le foglie poteva essere un predatore o solo un gioco di luci e ombre: non farlo poteva significare l’estinzione. Dunque, meglio scappare sempre… piuttosto che fermarsi a verificare”.
Il problema è che il nostro cervello tende a funzionare così anche in contesti diversissimi. In momenti di stress, paura o collera questo ci porta a compiere errori, a prendere decisioni sbagliate o a trarre conclusioni ingiuste prima che il pensiero lento possa intervenire. Da ciò derivano molti dei bias (pregiudizi) che condizionano la nostra vita, studiati dalla psicologia e dalle scienze cognitive.
Nel decennio scorso il cortocircuito tra il flusso continuo e ansiogeno delle notizie – molto spesso cattive notizie – e gli algoritmi dei social network che incentivano reazioni immediate ha rafforzato i nostri bias e reso gli errori non solo più frequenti ma più rapidi nel propagarsi. L’emergenza covid-19 ha ulteriormente aggravato la situazione. Prima dei lockdown, per molti non era possibile e nemmeno immaginabile trascorrere online l’intero tempo di veglia. C’erano limiti, paletti infissi nel terreno: il lavoro o la scuola, lo sport, gli affetti, la compagnia di amici, relazioni da mantenere… L’emergenza ha scalzato quei paletti. Per lunghi mesi la reclusione domestica, il bombardamento di notizie e l’impellente logica dei social network hanno pungolato il pensiero veloce, istigandoci ad alzare sempre di più i toni e compiere scelte drastiche senza pensarci un momento.
Abbiamo agito in balìa di titoli sensazionalistici, notizie già smentite o messaggi vocali diffusi su WhatsApp da chissà chi; abbiamo additato capri espiatori, inveito dalla finestra contro i passanti (riprendendoci mentre lo facevamo), gridato “Assassino!” a chi faceva jogging o portava “troppo spesso” il cane a fare i bisogni (filmando il malcapitato e mettendolo alla gogna su Facebook), augurato la galera a chi andava a fare la spesa più di una volta al giorno; abbiamo formato branchi digitali e rotto collaborazioni e amicizie, anche di lungo corso, in preda a un meccanismo che ci spingeva ad attaccare il “reprobo” di turno, la persona con opinioni diverse da quelle dominanti nel gruppo. A volte bastava sollevare un dubbio, far notare l’irrazionalità di un’ordinanza comunale, l’illegalità di un provvedimento, l’ingiustizia di una sanzione per essere accusati di “fregarsene dei morti” ed essere paragonati ai nazisti. Una comunicazione tutta limbica, in cui l’amigdala spadroneggiava. E la corteccia prefrontale? Chiusa in uno sgabuzzino, legata e imbavagliata.
Oggi tutti dicono che “un secondo lockdown va evitato a ogni costo”. Durante il primo abbiamo visto ribollire un calderone di ansia, ira, sospetto generalizzato, terrore, solitudine atroce, rancore, nevrosi, paranoie e, infine, psicosi. Soltanto adesso cominciamo a vederne le conseguenze: aumento di violenze domestiche e femminicidi, di suicidi e ricoveri psichiatrici, di vendite di psicofarmaci, della dipendenza da gioco, dell’alcolismo soprattutto tra giovani e donne, dei disturbi alimentari in bambini e preadolescenti. Lo tsunami di malessere mentale previsto a giugno è già visibile dal porto.
La dittatura del pensiero veloce, tipica delle emergenze, ha imposto un riduzionismo virocentrico: ci siamo scordati che la salute non consiste solo nell’evitare un virus e la scienza da ascoltare non è solo quella dei virologi. Per un approfondimento e una lettura critica da sinistra di quella fase rimando al glossario dell’emergenza pubblicato su Giap nel giugno scorso e al recente articolo di Wolf Bukowski intitolato “Pandemic: the italian way”.
Ritengo che molte concause della diffusione di QAnon anche dalle nostre parti, e in generale della sempre più rapida proliferazione di conspiracy fantasies, vadano cercate nei contraccolpi psicologici ed esistenziali dei lockdown. A volte il processo si vede con chiarezza e in tempo reale: brusca disillusione rispetto alla narrazione “siamo tutti sulla stessa barca” (l’emergenza ha accentuato le disuguaglianze e aumentato il divario sociale), incertezza su cosa stia accadendo, angoscia per il futuro, scelta di nuovi capri espiatori su cui dirigere sospetti e collera. Vicini di casa che prima brandivano l’hashtag #iorestoacasa come un randello e ostentavano il tricolore al balcone, cominciano a dire che “forse era tutta una balla” e si mettono a linkare conspiracy fantasies sul virus fabbricato in laboratorio, sulla pandemia voluta da Bill Gates, sui lockdown come copertura per installare i ripetitori 5g, sul controllo sociale per mezzo dei vaccini, eccetera.
Cosa succede nella mia mente quando cedo a una fantasticheria di complotto? Proviamo a ricostruirlo, passo dopo passo.
Fantasticherie di complotto nella mia mente
Il primacy effect è la tendenza a ricordare le prime informazioni ricevute e a ritenerle più importanti di quelle lette o sentite dopo. Avviene anche quando sono calmo, ma molto di più quando provo emozioni intense. Se ricevo una notizia mentre sono inquieto, arrabbiato o impaurito, tendo a ricordarla più facilmente. Questo influenzerà le mie elaborazioni e decisioni successive. Anche quando entra in azione la corteccia prefrontale, l’effetto è difficile da correggere per via dell’euristica della disponibilità: se ricordo una cosa, vuol dire che è importante. Tendo a ritenere più valido quel che posso richiamare alla mente con poco sforzo, a scapito di ciò che potrei conoscere con uno sforzo maggiore. Ne deriva il pregiudizio di ancoraggio: pensando, non mi allontano dal punto su cui mi sono fissato fin dal principio, convinto che sia il punto della questione, quando in realtà l’ho scelto in modo arbitrario.
Se le informazioni ricevute all’inizio erano all’insegna del “niente è come sembra” e dell’idea che esista una verità nascosta da trame occulte, tendo a restare in quello schema, mettendo in fila altri bias e distorsioni cognitive. Il pregiudizio di intenzionalità mi fa pensare che se qualcosa è accaduto – un incidente, un’alluvione, un’epidemia – qualcuno deve averlo voluto e pianificato. Il pregiudizio di proporzionalità mi convince che un evento su vasta scala e con molte conseguenze non possa avere una causa “piccola”: deve averne per forza una “grande”, che a sua volta – in base al pregiudizio di intenzionalità – deve dipendere dalla volontà di qualcuno.
Una pandemia non può avere come causa scatenante un episodio impercettibile come lo svolazzo di un virus da un animale a un essere umano, in seguito a processi impersonali, oggettivi, a cui tutti contribuiamo: deforestazione, urbanizzazione, allevamento intensivo… No, dev’essere l’esito di un piano globale, e quel piano deve avere un volto. Mi additano Bill Gates. È ricchissimo, mi è sempre stato sulle palle, fa carità ipocrita, c’entra qualcosa con i vaccini, Windows mi si blocca sempre… Ok.
A questo punto, scatta il pregiudizio di conferma: senza nemmeno accorgermene, scelgo le informazioni che rafforzano la mia convinzione e scarto quelle che la metterebbero in crisi. Ogni volta ne traggo la sensazione che ciascun tassello vada al proprio posto, cosa che mi dà soddisfazione, mi fa sentire forte e in grado di dominare ogni tema e materia. L’esaltazione rafforza l’effetto Dunning-Kruger: ciascuno di noi tende a sopravvalutare le proprie conoscenze, a darle per scontate. Perché a volte si vede la luna di giorno? Perché d’estate fa più caldo che d’inverno? Cosa fa il fegato, esattamente? A queste domande, la maggior parte di noi non saprebbe rispondere al volo. Io vado oltre, mi getto nelle dispute e disquisisco di virologia, ingegneria, balistica, chimica degli esplosivi o dei gas, astronautica, storia delle religioni…
Più sopravvaluto la mia capacità di leggere il mondo, più l’apofenia mi fa percepire collegamenti e schemi dove non ce ne sono. Noto che Trump indossa spesso cravatte gialle. Ci vedo un segnale preciso: sta dicendo che la pandemia è finta. La bandiera gialla è usata per segnalare che una nave non ha persone infette a bordo, e nel codice internazionale nautico il giallo sta per la lettera Q. Tutto torna.
Entra in gioco anche la pareidolia, che mi fa vedere immagini nascoste, simboli o facce che affiorano da sfondi, come un tempo il volto di Satana nel fumo delle torri gemelle. Avvisto il virus sars-cov-2 in una scena del film Captain America – Il primo vendicatore. È proprio il coronavirus, inconfondibile… ed è accanto a una pubblicità della birra Corona! Il film è del 2011, dunque tutto era previsto. Mi basterebbe fermarmi un minuto, guardare meglio, e capirei che quello non è il virus. È un mazzetto di bucatini Barilla disposti in modo da ricordare un fuoco d’artificio.
Ma… fermarmi? Non se ne parla. Dedico alla “ricerca” sempre più ore del giorno e della notte, non faccio che collegare elementi, discutere, diffondere materiali. Sono ormai in preda al bias da intensificazione dell’impegno: il tempo e le energie che ho investito non mi consentono di smettere, men che meno di invertire la rotta senza conseguenze sul mio ego, sulla mia autostima, sulla mia credibilità agli occhi altrui. Ogni giorno che passa, cambiare idea comporterebbe più fatica mentale. Ma perché dovrei cambiare idea, se sono nel giusto? È scattata la razionalizzazione post-acquisto: se ci ho investito tanto, vuol dire che l’affare era buono.
Se ogni tanto avverto una dissonanza cognitiva, per esempio tra la mia autostima e il fatto che la mia condotta abbia allontanato persone care, la risolvo nel modo meno faticoso: salvo l’autostima e do la colpa agli altri. Perdo amici, mi isolo da familiari e parenti? Colpa loro, non vogliono “svegliarsi”. Preferiscono restare nell’ignoranza? Che ci restino. E se non fosse solo ignoranza? Se fossero complici della Cabal, potentissima congrega di adoratori del diavolo e carnefici di bambini? Per fortuna adesso mi stanno alla larga. Tanto ho una nuova comunità. E sempre più persone condividono le nostre idee. E se sempre più persone le condividono, vuol dire che abbiamo ragione. E così, contento del mio argumentum ad populum, vado avanti.
Quando dico che “ho fatto le mie ricerche”, significa che ho navigato in rete in balìa di tutti questi pregiudizi, errori e scorciatoie. Ho letto un paio di commenti su Facebook, guardato in fretta una foto su Instagram, leggiucchiato pagine trovate nella prima schermata di Google… Al massimo ho guardato pseudodocumentari targati QAnon come Fall of the Cabal o Out of the shadows.
E adesso è arrivato quel momento. Sono pronto. Devo portare la “ricerca” un passo oltre. Per nutrire un sempre più affamato pregiudizio di conferma e avere l’approvazione della mia nuova comunità, comincio a fabbricare prove.
Dall’autoinganno alla calunnia
I credenti in QAnon ricorrono spessissimo a foto ritoccate o accompagnate da didascalie false. Li abbiamo visti falsificare luogo e data di un tweet del comico Patton Oswalt per accusarlo di aver violentato bambini nella pizzeria Comet Ping Pong di Washington Dc. Li abbiamo visti ritoccare foto della modella Chrissy Teigen e di suo marito, il cantante John Legend, per collocarli sull’isola privata di Jeffrey Epstein, ormai nota come “pedophile island”. Li abbiamo visti modificare una foto in cui il deputato democratico Adam Schiff posava accanto a suo padre novantenne, sostituendo quest’ultimo con Epstein. Li abbiamo visti diffondere immagini confuse o alterate ad hoc spacciandole per fotogrammi di un film inesistente, Frazzledrip, dove si vedrebbe Hillary Clinton scuoiare il volto di un bambino e indossare la pelle come maschera. Gli esempi possibili sono centinaia.
Ogni volta la smentita o reazione dei calunniati diventa prova della verità dell’accusa. Tra i persecutori digitali di Chrissy Teigen si è visto l’attore James Woods, forte dei suoi due milioni e mezzo di follower su Twitter, scomodare Shakespeare per insinuare che Teigen si difendeva con veemenza sospetta. Amleto, atto III, scena II: “The lady doth protest too much, methinks”. Nella traduzione di Cesare Garboli, non letterale ma fedele: “Lei esagera coi giuramenti, mi sembra”. Qualunque cosa faccia o dica, la vittima di calunnia si trova in trappola. E non accade solo ai personaggi famosi, che tutto sommato hanno strumenti per difendersi. La persecuzione mirata in branco (targeted harassment) può colpire chiunque, per i motivi più disparati, e dai social network straripare nello spazio fisico.
Nel branco ci sono anch’io. E avevo cominciato facendo “ricerche”.
Le cinque dimensioni di QAnon
QAnon è:
un gioco di realtà alternativa divenuto mostruoso;
un modello di business particolarmente cinico;
una setta che pratica forme di condizionamento mentale;
un movimento reazionario di massa che cerca di entrare nelle istituzioni;
una rete terroristica in potenza.
L’ipotesi è che QAnon sia partito sul forum 4chan come uno scherzo, plausibilmente ispirato al romanzo Q. Scherzo che ben presto è servito da spunto a troll organizzati e profittatori. Un’inchiesta della Nbc ha ricostruito nei dettagli il lavoro fatto nel 2017-2018 da tre persone in particolare – Coleman Rogers, Tracy Diaz e Christina Urso – per amplificare QAnon, trasformarlo in un grande gioco di realtà alternativa (Arg) e trarne profitti. Nel frattempo, un’altra cerchia si impadroniva della firma Q e ne spostava le “profezie” su 8chan.
L’inchiesta più recente getta luce sul ruolo di Jason J. Gelinas, un quarantenne del New Jersey, esperto di sistemi di sicurezza per il settore bancario. Gelinas è l’uomo dietro il sito Qmap, cruciale nodo della rete di QAnon dove si trovano il database dei messaggi di Q e risorse utili a orientarsi nel gioco e portarlo avanti: glossari, mappe, dossier costantemente aggiornati sulle persone che la setta accusa di pedofilia… Grazie a Qmap, ogni mese Gelinas incassa donazioni per più di tremila dollari. Non saranno milioni, ma è un reddito aggiuntivo di tutto rispetto. Poche ore dopo la pubblicazione dell’inchiesta, Qmap è scomparso dal web.
QAnon è una narrazione partecipativa che aggrega vaste comunità online e ha molte caratteristiche tipiche degli Arg: mancanza di una piattaforma centrale, commistione di realtà e fiction, ricerca collettiva di indizi e collegamenti, soluzione di presunti misteri, aggiornamento costante della narrazione… Il collettivo Wu Ming aveva paragonato QAnon a un Arg già nell’agosto 2018. Due anni dopo, conserva ancora parte della sua dimensione di gioco. Un gioco del quale i partecipanti non riconoscono più i confini e dal quale sono ormai dipendenti. Un gioco reazionario, razzista, omofobo e antisemita.
Soprattutto, un gioco in perfetta simbiosi con gli algoritmi dei social network, nell’ambito dell’ormai compiuta gamification delle interazioni. L’utente dei social è costantemente spinto a cercare segni d’approvazione, ricompense, punteggi alti, record personali. Un feticismo dei numeri e del dato quantitativo, si tratti di follower, like, commenti, condivisioni, reazioni, retweet, citazioni, visualizzazioni di un video, eccetera.
In questo ecosistema dove chiunque è sempre in mostra e sempre in cerca di acclamazioni, protagonista del proprio reality show, cresce la domanda di prodotti che rafforzino l’immagine ed esaltino lo stile di vita. I credenti in QAnon comprano magliette, felpe e cappellini con la Q da sfoggiare in selfie e video, bandiere da appendere al balcone o sventolare ai cortei, toppe da cucirsi sul giubbotto, spille da appuntare al bavero, tazze in cui bere il caffè che tiene svegli per la “ricerca”. E libri: nel 2019 un volume intitolato QAnon. An invitation to the great awakening ha scalato la classifica di Amazon.
Il numero di chi trae profitti da QAnon è aumentato costantemente, con la complicità dei social network e l’imprescindibile contributo del sito di Jeff Bezos, che a tutt’oggi vende ogni sorta di prodotto a tema. Ma Internet ha solo ingigantito un fenomeno preesistente: già da tempo il cospirazionismo era un modello di business. Con l’industria culturale è nata anche una sottoindustria delle fantasticherie di complotto, con i suoi bestseller, i suoi status symbol, i suoi stratagemmi e intrallazzi. Umberto Eco l’ha descritta nel suo capolavoro Il pendolo di Foucault (1988) e nel suo penultimo romanzo Il cimitero di Praga (2010). Oggi il sito InfoWars, feudo personale di Alex Jones, ha un fatturato di venti milioni di dollari all’anno e genera profitti per cinque milioni, grazie alla vendita di integratori e sedicenti farmaci alternativi.
La natura totalizzante del gioco scappato di mano ha fatto di QAnon un “mind control cult”, una setta che recluta online e distorce la percezione del convertito, quasi sempre alienandolo dalla propria famiglia – a meno che questa non aderisca in blocco – e dalle proprie amicizie. Su QAnonCasualties arrivano sempre nuove testimonianze. Spesso i convertiti perseguitano parenti e amici, tentando a ogni costo di somministrare la “pillola rossa”, metafora per la scoperta della verità presa dal film Matrix. Numerosi racconti parlano di stalking e minacce. A quel punto la rottura è inevitabile. Isolarsi dai miscredenti è una sorta di passaggio iniziatico, al termine del quale i qultisti dicono: “Ora la tua famiglia siamo noi”. E la comunità può anche organizzare sottoscrizioni per aiutare credenti rimasti soli e in difficoltà.
Tutto questo avviene online: nell’epoca della rete, una setta non necessita per forza di sedi fisiche, e nemmeno di guru presenti in carne e ossa. E come tutto quel che avviene online, ha tempi rapidissimi: Jessica Prim, 37 anni, dell’Illinois, ha mandato giù la pillola rossa nei primi giorni di aprile 2020; il 29 aprile è stata arrestata mentre, con un’auto piena di armi da taglio, si dirigeva verso New York con l’intento, annunciato in diretta su Facebook, di “far fuori Joe Biden”.
A proposito della pillola rossa, è buffo che QAnon, movimento fortemente omofobico e transfobico, prenda una delle sue più importanti metafore da un film dei fratelli Andy e Larry Wachowski, che oggi sono le sorelle Lana e Lilly Wachowski. Tanto per capirci, nell’agosto 2020 Lilly ha definito la pillola rossa e l’intera trilogia “allegorie transgender”.
Non uso i termini cult e setta a cuor leggero. Il rischio nel maneggiarli è di legittimarne la connotazione criminalizzante, usata nel corso dei secoli per diffondere fantasticherie di complotto, perseguitare minoranze, indicare nemici pubblici, negare la libertà di culto. Gli ebrei che subivano “l’accusa del sangue” erano una setta; ogni eretico bruciato sul rogo era parte di una setta; per gli inquirenti di Modena i genitori dell’inchiesta “diavoli della Bassa” erano parte di una setta; lo stesso QAnon descrive i propri nemici come membri di una setta. Non solo: quando si parla di condizionamento mentale, bisogna tenere come monito la storia del reato di plagio, nel 1981 dichiarato incostituzionale ed eliminato dal codice penale italiano.
Qui, però, non stiamo parlando della libertà di parola o di culto di nessuna minoranza perseguitata. Stiamo parlando di una setta reale (QAnon) che crede nell’esistenza di una setta immaginaria (la Cabal), inventa calunnie impressionanti, scatena i propri credenti in linciaggi virtuali e sogna di compiere uno sterminio, sia pure – almeno per il momento – tramite delega a un potere golpista. Tutto questo mentre venera un miliardario, Donald Trump, che è anche l’uomo politico più potente del pianeta.
La coesione garantita dalla dimensione di setta e la facilità con cui trova proseliti hanno trasformato QAnon in un movimento di massa, che negli Stati Uniti fa politica dentro il partito repubblicano. Nonostante qualche voce preoccupata ai piani alti, la base del partito sembra rispondere in modo positivo. Perché non dovrebbe, visto che è Trump in persona a mandare segnali di approvazione? Decine di credenti si sono candidati alle primarie repubblicane per il congresso. Alcuni hanno vinto e correranno per i seggi, come Marjorie Taylor Greene in Georgia. La Cabal regge i fili del mondo, controlla la realtà a più livelli, ma non è in grado di sabotare una banalissima elezione primaria. Altri credenti in QAnon sono candidati alle elezioni per varie assemblee statali. Organi legislativi su scala più piccola, dove avranno molte più possibilità di incidere. Strano che la Cabal non possa farci nulla.
La contraddizione è evidente: la setta che Trump elogia e che partecipa alle elezioni è la stessa che secondo l’Fbi e il centro antiterrorismo di West Point rappresenta una “minaccia terroristica interna”. Dal 2018 a oggi credenti in QAnon hanno commesso omicidi a New York e a Seattle, appiccato due incendi dolosi di cui uno gigantesco in California, devastato una chiesa in Arizona, tentato un sequestro di persona in Colorado… Con i dovuti distinguo, possiamo aggiungere la strage di Hanau, in Germania. Queste persone si sono radicalizzate online e hanno agito da sole, senza un’organizzazione. E se gli episodi di azione diretta sono tutto sommato ancora pochi, è solo perché la retorica della setta è basata sulla delega. QAnon esorta ad “avere fiducia nel piano”: la guerra contro il deep state la sta combattendo Trump insieme ai militari, noi dobbiamo sostenerli, votare a novembre per confermare il nostro eroe alla Casa Bianca e intanto aiutare a smascherare la Cabal con le nostre ricerche, additando e isolando i pedofili. La Tempesta arriverà e vivremo il Grande risveglio.
È un frame precario: non sappiamo cosa accadrebbe se Trump dovesse perdere le elezioni. O se, con il passare del tempo, la fiducia in lui dovesse scemare. A prescindere da questo, come si evolverà il fenomeno QAnon? Ci saranno suicidi di massa come quello del Peoples temple del reverendo Jones in Guyana, 18 novembre 1978? O la setta attenuerà il proprio messaggio per accomodarsi, con un profilo più istituzionale, nella destra più “normale”? Forse vedremo entrambi gli esiti, e altri ancora, se la setta, come appare plausibile, conoscerà divisioni e scismi.
Alcune indicazioni sul futuro di QAnon, sulla sua prossima composizione sociale e ideologica, può darcele la sua rapida ibridazione con il mondo della new age, della wellness, delle medicine e spiritualità alternative. Negli studi sul cospirazionismo è stato coniato il neologismo conspirituality, cospirazionismo + spiritualità. In realtà, come spiegato dagli storici delle religioni Egil Asprem e Asbjørn Dyrendal, non si tratta di un fenomeno nuovo, ma di un ritorno a origini comuni nell’esoterismo del diciottesimo secolo e nell’occultismo del diciannovesimo.
Gli ambienti newagey sono sempre stati esposti a derive reazionarie, affollati come sono di guru, santoni, metafisica a buon mercato e tendenze cultiste. Nondimeno, molte di quelle persone, reti e sottoculture si sono storicamente percepite e rappresentate come parte di una sinistra diffusa. È proprio questo il punto: tramite l’ibridazione QAnon sta reclutando a sinistra, o quantomeno è accettato come compagno di strada da persone che fino a ieri si dicevano, e forse ancora si pensano, di sinistra.
Se new age e wellness sono un viatico, l’antivaccinismo è una sorta di corsia preferenziale. In ambienti “alternativi”, già prima della pandemia avevano molto successo le fantasticherie di complotto sui vaccini. Oggi molti che le propagavano si ritrovano gomito a gomito con QAnon, in Nordamerica come in Europa. In Italia, spesso è accaduto dopo un passaggio intermedio nel Movimento 5 stelle, vero e proprio partito “traghettatore”.
Le reazioni chimiche in corso sono visibili, anzi, appariscenti nelle immagini delle manifestazioni di fine agosto a Berlino, Londra, Los Angeles e Roma. È semplicistico e sbagliato descriverle come raduni di “negazionisti del covid” o di “no mask”. Sono espressioni ingannevoli, perché restringono il campo. I temi portati in piazza vanno oltre la pandemia, tanto che quest’ultima sembra un trampolino per parlare d’altro: il complotto satanista, la lotta di Trump contro il deep state, il 5g… Su questi temi avviene una convergenza che, non si trattasse di un’etichetta ormai logora, potremmo definire rossobruna. Un’interzona rossobruna sui generis, dove si incontrano fricchettoni e ultradestra, si parla di aromaterapia e di piano Kalergi, si leggono i tarocchi e si leggono le Qdrops (gocce di Q). In un articolo intitolato “Nazi hippies: when the new age and far right overlap”(“Nazi hippies. Quando New Age ed estrema destra si sovrappongono”), il filosofo Jules Evans spiega che non dovremmo stupirci. Sono d’accordo, e non solo per i motivi che dice lui.
Fantasticherie di complotto a sinistra
Ogni fantasticheria di complotto è nel suo esito reazionaria e perciò, se vogliamo semplificare, porta “a destra”. Qui mi riferisco alle visioni del mondo storicamente associate ai termini destra e sinistra. Sto parlando di idealtipi. Se invece prendiamo in considerazione gli schieramenti concreti, le persone in carne e ossa che si sentono e dicono appartenenti all’una o all’altra parte, allora è falso che la sinistra sia meno incline al cospirazionismo.
Tra chi si dice e pensa di sinistra – spettro di posizioni che va dai più tenui liberal alle correnti anticapitaliste più radicali, passando per varie sottoculture alternative – sono diffuse molte teorie infondate ed è frequente immaginare vastissime e perfette congiure globali.
Non poche fantasticherie di complotto si sono affermate a sinistra in nome dell’antimperialismo. In certi ambienti si è radicata l’idea che George Soros paghi ogni manifestante e ogni rivolta in qualunque paese abbia un regime sedicente “nemico dell’imperialismo”, come la Siria o la Bielorussia, ma anche la stessa Russia o la Cina. Che una sollevazione popolare possa essere strumentalizzata da forze politiche o potenze straniere è nell’ordine delle cose; che ogni sollevazione popolare sia tout court una messinscena allestita da un grande burattinaio è invece del tutto implausibile. Non solo: è una manifestazione di pensiero reazionario. Non importa quanto autoritario e corrotto possa essere un regime “antiamericano” o quanto siano sfruttati i lavoratori in quel paese: la popolazione non ha ragione né diritto di protestare, l’operaio non deve scioperare. Non c’è mobilitazione che avvenga dal basso, è sempre un complotto dall’alto e i dimostranti si dividono tra utili idioti e crisis actors, guardacaso pagati da un ebreo.
La tendenza a negare ogni libertà d’azione (agency) popolare se politicamente sgradita non è certo una novità: negli anni settanta i dirigenti del Partito comunista italiano denunciarono l’ascesa della nuova sinistra e di movimenti autonomi dal partito come parte di un complotto americano e dei servizi segreti. Il Pci bolognese rispose agli eventi del marzo 1977 gridando a un supercomplotto da parte di un misterioso stato maggiore eversivo in combutta sia con le Brigate rosse sia con i neofascisti.
Anche oggi, di fronte a mobilitazioni fastidiose, è frequente la domanda “Chi li paga?”, che allude sempre a un complotto. A sinistra è una mentalità che risale almeno alle purghe staliniane. Ma non si creda che ne siano immuni i liberal: il voto referendario per la Brexit? Esito di un complotto russo e di un lavaggio del cervello di massa. Il movimento dei gilet gialli? Idem, o comunque fenomeno creato a tavolino ed eterodiretto. E che dire del presunto Russiagate come spiegazione utile ad allontanare da sé ogni responsabilità per la vittoria di Trump nel 2016? Sono escamotage buoni per rimuovere il malessere, il rancore nei confronti delle élites che hanno gestito neoliberismo, privatizzazioni e austerity, politiche che hanno aumentato esclusione e disuguaglianza.
Tornando alla sinistra radicale e di movimento, nei nostri ambienti ha sempre avuto successo chi grida alla false flag anche quando è la spiegazione più implausibile. Intendiamoci, le operazioni “sotto falsa bandiera” – compiute per attribuirle ai propri nemici – sono una realtà. L’esempio classico è la prima inchiesta su piazza Fontana, che sventolò un vessillo rossonero per dare la colpa agli anarchici. In genere, però, queste operazioni hanno un focus preciso e circoscritto, e di solito vengono scoperte. Estendere la spiegazione false flag a troppi eventi porta a pensare che tutto sia l’esatto opposto di quel che sembra. Invece, il più delle volte, un attentato di terroristi islamici è davvero quel che sembra: un attentato di terroristi islamici.
Il cospirazionismo, scrisse lo storico Richard Hofstadter, parte da un problema vero ma poi compie un balzo “dall’innegabile all’incredibile”. Che al Qaeda e il gruppo Stato islamico siano nati e cresciuti per gravi responsabilità dell’occidente – soprattutto delle ingerenze statunitensi in Medio Oriente – è un’affermazione fondata e documentabile. Concluderne che in pratica i due gruppi non esistono se non come dirette emanazioni della Cia e che tutti i loro attentati sono false flag è invece un salto logico che genera fantasticherie di complotto.
Pensiamo agli attentati dell’11 settembre 2001. Si è partiti da comprensibili dubbi su elementi della versione ufficiale che apparivano poco chiari. Dubbi rafforzati ex post da un dato di fatto: gli attentati furono usati come pretesto – con tanto di prove false sulle armi di distruzione di massa a disposizione dell’Iraq – per lanciare la “guerra infinita” di George W. Bush. Guerra che ha devastato il Medio Oriente e l’Asia occidentale, favorendo anche la nascita del gruppo Stato islamico.
Da queste premesse del tutto accettabili molti sono partiti senza mappa né bussola e – in preda all’effetto Dunning-Kruger, al pregiudizio di conferma e agli altri bias di cui sopra – si sono persi nella terra dei truther (i paladini della “vera verità” sull’11 settembre), un luogo in cui tutti si improvvisano ingegneri infrastrutturali, esperti di esplosivi, esperti di fotografia forense e quant’altro. Il focus della critica si è ristretto sempre di più al tentativo di dimostrare che il crollo delle torri gemelle fu una demolizione controllata e gli attentati di quel giorno nient’altro che un inside job (lavoro dall’interno). Scenario che implica per forza un complotto perfetto e vastissimo, sconfinato, con centinaia di migliaia di complici attivi in varie sfere delle amministrazioni dei più importanti stati. In una parola: un complotto universale.
A rigor di logica, la complicità – perlomeno passiva – si dovrebbe estendere agli altri paesi nel consiglio di sicurezza dell’Onu, comprese la Russia di Putin e la Cina, che certamente sarebbero state al corrente di una macchinazione del genere, o comunque l’avrebbero scoperta in tempi brevissimi. In fondo, se dicono di averla scoperta “ricercatori indipendenti” come Maurizio Blondet e Massimo Mazzucco… Russia e Cina accettarono la versione ufficiale, è un dato di fatto. Quest’implicazione è in genere rimossa, forse perché in contrasto con le simpatie politiche di molti truther, grandi fan di Putin o del Partito comunista cinese.
Ad amiche e amici incuriositi dal trutherism ho sempre chiesto: “Abbiamo bisogno di questa roba per essere contro le guerre americane?”. Io sono convinto di no, ma certamente ne ha bisogno chi vuole arrivare al complotto giudaico. Allude a quest’ultimo la leggenda urbana sull’assenza di ebrei nelle torri gemelle la mattina dell’attentato. Tutti preallertati dal Mossad, che così è annoverato tra gli artefici della strage. In realtà, gli ebrei morti nel World trade center furono almeno 270, circa il dieci per cento del totale. La percentuale rispecchia quella degli ebrei tra gli abitanti di New York. Il Mossad ha già all’attivo molte malefatte reali, attribuirgliene di inventate danneggia le denunce fondate e le inchieste serie, facendo il gioco di chi taccia di antisemitismo ogni critica ai governi israeliani.
Perché il cospirazionismo si diffonde a sinistra? Perché le fantasticherie di complotto propongono rappresentazioni semplicistiche – spesso caricaturali – del capitalismo e surrogati di critica al sistema. In questo modo occupano un vuoto di analisi e iniziativa, fanno imboccare scorciatoie mentali, deviano il malcontento dove potrà esprimersi solo in impotenti mugugni, deresponsabilizzano.
Le fantasticherie di complotto come narrazioni diversive
Una massima attribuita al socialista tedesco August Bebel (1840-1913), ma in realtà apocrifa, dice: “Der Antisemitismus ist der Sozialismus der dummen Kerle”, l’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli. Il contenuto è vero, ma l’espressione è infelice: non è questione di imbecillità ma di proiezione, un meccanismo di difesa psicologica a cui tutti possiamo soccombere.
Il mio malessere di sfruttato, di “malpagato derubato deriso disgregato” (Rino Gaetano, Mio fratello è figlio unico), è legato al mio posto nei rapporti sociali, a disuguaglianze strutturali, alla concentrazione della ricchezza, a come funziona il mercato del lavoro. Per comprendere questo stato di cose dovrei riconoscere l’ideologia che lo giustifica e lo presenta come naturale. Dunque dovrei mettere in discussione come vivo, come lavoro, i miei consumi, i miei miti, il tempo che passo sui social network, le mie contraddizioni. È una presa di coscienza faticosa, spesso evitata – o lasciata affievolire nel corso degli anni – anche da chi si ritiene politicizzato e attivo.
Se invece proietto il mio malessere su un presunto nemico occulto posso evitare scomode autoanalisi e continuare nel mio tran tran. Non avrei certo bisogno di fantasticherie di complotto per avercela con i miliardari (Trump incluso), con l’ipocrisia del filantrocapitalismo, con il partito democratico americano (e con quello italiano), con la politica di Hillary Clinton quand’era segretaria di stato, eccetera. Scelgo le fantasticherie di complotto perché, rispetto all’analisi di classe della società e alla critica dell’economia politica, sono più facili e confortevoli.
Il deep state è una descrizione caricaturale degli interessi di classe che influenzano e plasmano l’azione dei governi e dello stato. Nel suo libro Republic of lies Anna Merlan espone il nucleo di verità dell’espressione, scrivendo cose che a molti di noi suonano ovvie:
(Lo stato profondo) è il luogo in cui le industrie miliardarie e le agenzie governative che dovrebbe regolarle sono gestite dalle stesse persone, che passano continuamente per la stessa porta girevole… È il luogo in cui agenzie altamente segrete come la Nsa operano in collaborazione con aziende tecnologiche della Silicon Valley indifferenti a preoccupazioni etiche… È il luogo in cui il sistema elettorale è talmente inondato di fondi neri che la maggior parte degli americani dispera di poterlo mai recuperare.
Per i credenti in QAnon il deep state è al tempo stesso molto di più (l’organigramma segreto del complotto universale) e molto di meno (il sistema capitalistico è ben più grande e complesso di qualunque organigramma o congiura). Oggi l’espressione deep state non può più essere dissociata da tali connotazioni. Quando la sentiamo usare, immancabilmente segnala l’adesione a una conspiracy fantasy.
Anche il modo in cui le fantasticherie di complotto descrivono il ruolo dei mezzi di informazione è semplicistico e caricaturale.
“I media mentono”, ma non in quel senso
Ci sono ottimi motivi per diffidare dell’informazione mainstream, ma non sono quelli che dice QAnon. La televisione e i grandi giornali non sono “in mano alla Cabal”: sono in mano ai capitalisti. In Italia per esempio, cinque grandi gruppi industriali identificabili con un pugno di super ricchi – la famiglia Agnelli-Elkann, la famiglia Berlusconi, Urbano Cairo, Francesco Gaetano Caltagirone, Andrea Riffeser Monti – possiedono quasi tutti i giornali nazionali e locali, e i più importanti canali televisivi privati. Poi c’è la televisione di stato, che è controllata dal governo. Come dice il noto adagio, in ogni società le idee dominanti sono quelle della classe dominante, e mainstream è solo un modo soft di dire dominante. In epoche meno inclini a eufemismi, i grandi giornali erano “la stampa borghese” e il quotidiano La Stampa, di proprietà della Fiat, era chiamato dagli operai “La Busiarda”.
Ma la tutela di interessi politici ed economici mediante l’informazione non è un processo lineare né semplice. Non c’è una congiura a mettere tutti d’accordo, né tutta l’informazione ha fini di propaganda. La classe dominante è divisa in settori, gruppi di potere, cordate, perciò nei mezzi di informazione vediamo tensioni, conflitti, narrazioni divergenti. In questo scenario, può trovare un proprio spazio anche l’informazione di qualità: l’occasionale inchiesta seria e scrupolosa, il punto di vista critico e illuminante… Un lavoro che qualcuno si ostina a fare, anche se è sempre più faticoso e sempre più inadatto al “business model tossico” dell’informazione. E con l’emergenza covid-19 e la dittatura dell’amigdala, la già pessima qualità media dell’informazione è ulteriormente sprofondata.
È ingenuo pensare, come fa chi cede a fantasticherie di complotto, che tutto quel che dice il mainstream sia falso nei contenuti. Può senz’altro accadere che siano falsi i fatti riportati, ma il più delle volte la cattiva informazione sta nel modo di presentare le notizie, nel framing, cioè nella cornice narrativa in cui i fatti sono automaticamente inseriti e interpretati. Un esempio di frame è “emergenza immigrazione”: una volta attivata quella cornice, non servono notizie false, perché anche quelle vere avranno effetti che falseranno la percezione. Ogni sbarco o salvataggio in mare di migranti sarà avvertito come pericoloso.
Le ricerche-fai-da-te di chi crede a conspiracy fantasies si basano principalmente su due assunti: 1) che l’informazione mainstream dica l’esatto contrario della verità e dunque la prima cosa da fare sia capovolgerne le affermazioni; 2) che i social network siano un altrove rispetto all’informazione mainstream, luoghi dove in linea di massima si può comunicare in modo libero. In questo modo ci si ritrova in balìa non solo di un bias cognitivo dopo l’altro, ma di algoritmi che condizionano ogni scelta, tracciano ogni interazione, personalizzano sempre di più l’esperienza di navigazione, traggono profitto dal nostro fruire l’informazione e dal comunicare tra noi. Ecco una lunga disamina di queste dinamiche pubblicata su Giap.
I social network sono ormai una seconda natura, estensioni della nostra psiche che diamo per scontate. Per questo Mark Zuckerberg non è immaginato come componente della Cabal: la visione del sistema che hanno i credenti in QAnon è in fondo la stessa di chiunque trascorra gran parte del proprio tempo su Facebook, magari proprio inveendo contro il sistema. Mi rappresento come nemico del potere, fatta eccezione per lo strapotere della piattaforma che sto utilizzando. Quello strapotere plasma l’ambiente del mio comunicare, dunque mi è invisibile, come l’aria che mi avvolge. Nemmeno Jeff Bezos è preso di mira dalla setta, e il discorso è simile a quello appena fatto: pensiamo ai fiorenti commerci di QAnon su Amazon, e in generale a quanto i lockdown abbiano reso sempre più persone amazon-dipendenti. Se Amazon e Facebook – e con quest’ultimo anche WhatsApp e Instagram – fossero di proprietà della Cabal, i credenti in QAnon dovrebbero concludere di esserne complici, e cambiare radicalmente le proprie abitudini.
QAnon in Italia
Diamo una rapida occhiata ai siti di QAnon in lingua italiana. Quelli interamente dedicati alla setta sono due: QAnon.it e Q Research. Più numerosi, e in molti casi ben più seguiti, i siti dove la propaganda QAnon si alterna ad altri materiali: il più volte citato Byoblu, che ha anche un canale tv sul digitale terrestre e un social network nel quale circola materiale QAnon in abbondanza; il famigerato Imola Oggi di Armando Manocchia; La Nuova Padania; Libre, associazione di idee; Disinformazione.it; Conoscenze al confine; Databaseitalia.it e così via, in una coda lunga di siti e blog via via meno rilevanti – come Mediterraneinews o Destatevi! – ma che tutti insieme aumentano il rumore di fondo.
I provvedimenti presi da Facebook sembrano aver colpito soprattutto pagine in inglese: la pagina QAnon Italia è ancora online e ha quasi 17mila iscritti. Per quanto riguarda Twitter, non è dato sapere quanti siano gli utenti italiani che credono in QAnon. Molti sono riconoscibili dalle tre stelline gialle accanto al nickname. Nell’agosto scorso una delle propagandiste più attive, tale Meri Q, ha accusato Gucci di fare le sue borse con pelle di bambini uccisi dalla Cabal. Oggi il suo profilo risulta chiuso. Su YouTube, con circa 25mila iscritti, opera il canale Qlobal-change Italia, che offre anche la versione italiana del documentario Fall of the Cabal (qui un’analisi approfondita da parte di Massimo Polidoro). Un altro canale dove trovare news finte targate QAnon è Dentro la notizia, che ha 65mila iscritti. Su Telegram si trovano svariati canali QAnon in lingua italiana: i principali sono QAnonsItalia, 5.500 iscritti, e Q Anon Italia Original, 3.800 iscritti.
In Italia QAnon trova terreno fertile. Per ragioni storiche e culturali legate al retaggio dell’inquisizione e della controriforma, le fantasticherie di complotto sul satanismo hanno sempre avuto facile presa, e a partire dagli anni novanta hanno conosciuto un revival, al quale hanno contribuito le istituzioni, soprattutto la magistratura. Certi teoremi giudiziari costruiti da zelanti procuratori della repubblica hanno poco da invidiare alle storie sulla Cabal e l’adrenocromo, ma hanno avuto vasta eco sui mezzi di informazione, grazie alla carica ricoperta da chi le propugnava. Lo ha raccontato nei dettagli Selene Pascarella nella sua inchiesta “I satanisti ammazzano al sabato”. Oltre al potere giudiziario, a baloccarsi con fantasticherie di complotto – e proprio con quelle che QAnon ha integrato nella propria narrazione – sono stati parlamentari di diversi partiti e vari ministri.
Che il cospirazionismo sia parte integrante della visione del mondo e della propaganda delle destre identitarie lo diamo per inteso e almeno in questa sede eviteremo di occuparcene. È invece interessante gettare luce sul ruolo del Movimento 5 stelle. Non com’è oggi, imbolsito e pienamente borghese (esito previsto già nel 2013), ma com’era negli anni dieci. L’ipotesi è che molti credenti in QAnon provenienti da sinistra siano passati per qualche forma di attivismo – anche solo virtuale – nel M5s. Manca ancora uno studio al riguardo, ma è una traiettoria ricorrente, visibile nei profili sui social network, e soprattutto parlano chiaro i curricula dei principali diffusori di QAnon in Italia: molto spesso provengono dal partito di Grillo e Casaleggio, dove hanno avuto ruoli e incarichi importanti. Il senatore Bartolomeo Pepe, oggi nel gruppo misto, è stato tra i primissimi a portare QAnon in Italia, come segnalato dalla testata online neXt già nel settembre 2018. La deputata Sara Cunial, anche lei fuoriuscita dai cinquestelle, ha inserito elementi della narrazione QAnon in un suo discorso alla camera e ha rapporti con la propagandista di QAnon Alicia Erazo. Claudio Messora, fondatore di Byoblu, è stato responsabile della comunicazione del gruppo M5s al senato.
Nel decennio scorso esponenti di rilievo del M5s – o fuoriusciti dopo che il partito li aveva portati nelle istituzioni – hanno flirtato con quasi ogni fantasticheria di complotto o leggenda d’odio antica e recente. Il senatore Elio Lannutti ha dato credito ai Protocolli dei savi anziani di Sion; il deputato Paolo Bernini ha definito la riforma sanitaria di Barack Obama un complotto per controllare le persone tramite microchip impiantati sottopelle; la senatrice Paola Taverna e altri rappresentanti cinquestelle hanno rilanciato la tesi infondata sui vaccini come causa dell’autismo; il consigliere comunale di Roma Massimiliano Quaresima ha attribuito ai vaccini un aumento dell’omosessualità e diffuso svariate pseudoinchieste sulle scie chimiche; la deputata Tatiana Basilio ha denunciato una congiura del silenzio finalizzata a nascondere l’esistenza delle sirene (non quelle delle ambulanze: proprio le donne-pesce), e l’intero M5s ha cavalcato il caso Bibbiano, accusando il Pd di essere alla testa di un traffico di bambini. Accusa che si è dovuto rimangiare dopo che con lo stesso Pd ha fatto un’alleanza di governo.
Da un simile pot-pourri a QAnon il passo era breve. Nel 2018 il piede era già a mezz’aria: Marcello Foa, poco prima di diventare presidente della Rai anche con i voti del M5s, scriveva tweet su “cene sataniche” a base di “mestruo, sperma e latte di donna” a cui avrebbe partecipato Hillary Clinton.
Oggi il piede ha toccato il suolo.
Postilla
In questa sede non è stato possibile approfondire molti aspetti. Perché la Germania è il peggior focolaio di QAnon nel vecchio continente, e quali sono le implicazioni per il resto d’Europa? Quali sono i nuclei di verità delle fantasticherie di complotto sul covid-19 e come ripartire da quei nuclei per evitare che malessere e rabbia siano catturati dal cospirazionismo? Sono domande cruciali. Rispondere è urgente, ed è un compito di tutte e tutti noi.
Su QAnon e le fantasticherie di complotto Wu Ming 1 sta scrivendo il libro La Q di qomplotto (Edizioni Alegre, gennaio 2021).