The Believer, il più bel film sull’antisemitismo, fra polemica e profondità
In questo periodo di Giornata della Memoria, di riflussi tremendi di antisemitismo, di antisionismo e di aggressività di vario tipo, mi sembrava doveroso ripescare in questo mio blog un bel film come “The believer”. Uscito 15 anni fa sugli schermi italiani, chiacchieratissimo e criticato negli Usa e qui cestinato nel dimenticatoio dopo il solito “botto” iniziale, questa pellicola è davvero originale per tanti motivi e malgrado sia uscita diversi anni fa, ero un baldo giovane di 25 anni quando l’ho visto, merita di essere riesumato dal solaio. In questo mio blog dedicato a cinema, musica e cultura del mondo ebraico contemporaneo non parlo solo di film nuovi ma mi piace ogni tanto ripescare prodotti notevoli anche se di un po’ di tempo fa. Per quale motivo “The Believer è un film importante? Innanzitutto perché ha lanciato il bravissimo attore mormone canadese Ryan Gosling, (trucido e affascinante Scorpione ascendente Pesci, 35 anni, esploso anni dopo con lenta e scivolosa scalata e ora famoso per film come “Drive” e “La grande scommessa”di recentissima produzione.
Poi perché questa pellicola americana, che nel cast oltre allo straordinario Gosling vede altri due solidi attori come Billy Zane, sconosciutissima star del film “Titanic” e Theresa Russell, non parla al passato, con storie di Shoah, di ricordi, di anni ’30 e ’40, ma dell’antisemitismo oggi attraverso la crisi esistenziale e identitaria profondissima del protagonista ebreo Daniel Balint che diventa uno spietato e sarcastico naziskin influenzato dai suoi amici e dalla sua ragazza che invece si avvicinerà all’ebraismo.
Una storia fortissima che incatena lo spettatore e lo ammalia grazie a un ritmo da film d’azione, merito del bravo regista Henry Bean, (strano nome che può tradursi come “Enrico Fagiolo” e poi sparito come fugace lampo) e a dialoghi affilati, azzeccati e molto ben confezionati. Com’è possibile essere ebreo e al tempo stesso antisemita? Da dove deriva l’antisemitismo e quali sono i suoi stereotipi e le sue subdole trappole? Sebbene molti spettatori e critici attaccarono il film, accanto ai tanti elogi, definendolo “esagerato” o “paradossale” questo lungometraggio premiato a vari prestigiosi festival si ispira, invece, alla storia vera dell’ebreo Daniel Burros che divenne naziskin.
Sono passati quindici anni dal film che in certi passaggi ricorda un altro bel lavoro come “Talk Radio” di Oliver Stone ma Gosling e il regista sono più profondi, emotivi e esistenziali e l’America rappresentata è diversa, non quella ottimista e anni ’80 del film di Stone ma gli Usa violenti, cupi e feriti e insospettabilmente razzisti degli anni 2000. Diverse scene sono memorabili, dall’aggressione del crudele Balint diventato naziskin all’indifeso seminarista ebreo che apre in maniera angosciante la pellicola, che rappresenta la crudeltà di attaccare verbalmente e fisicamente persone indifese solo perché “diverse”, situazione che tristemente si è ripresentata più volte nelle recenti cronache di antisemitismo e di violenza europea e mondiale. I ricordi di Balint quando nella scuola ebraica poneva domande scomode e imbarazzanti al suo insegnante di Torah che rispecchiano i dubbi di tanti laici e il dissidio laici-religiosi molto vivo nell’ebraismo contemporaneo. L’intervista del giornalista del New York Times anche lui ebreo come Balint che rimane sconvolto nell’ascoltare i discorsi deliranti e gelidamente articolati del ragazzo mentre sciorina i soliti stereotipi antisemiti con inquietante rabbia. Dallo strapotere degli ebrei nei media, alla mentalità manipolatrice e attaccata al denaro, al fatto che “gli ebrei sono tutto astrazione e diverse idee contorte dalla psicanalisi, al comunismo sono colpa loro” come dice Balint.
Gosling è veramente eccezionale e all’epoca aveva solo 22 anni nell’impersonare un personaggio tanto fragile e crudele come Balint che rappresenta un certo “odio di sè” ebraico del mondo ashkenazita, seppure all’estremo, l’assimilazione e l’influenzabilità, la confusione e il senso di disorientamento che molti ebrei della mia generazione e più giovani spesso vivono nei tempi odierni circondati da sentimenti ambigui, da compagnie sbagliate, indecisi su valori e convinzioni e immersi in questo clima che oscilla fra tolleranza e diffidenza. Molto accurata nel film anche la rappresentazione della Sinagoga, i dialoghi sullo Shabbat, sulla kasherut, coinvolgenti le liti su sionismo, nazismo, antisemitismo e le discussioni di Balint coi sopravvissuti alla Shoah. Il rabbioso protagonista contesta tutto e vorrebbe credere, da lì il titolo “The Believer” (Il credente), che si oppone e aggredisce perché si sente ferito, che parla preoccupato di assimilazione, che si commuove quando ascolta i racconti delle vittime dei lager e si innervosisce con loro perchè non hanno reagito alle barbarie subite.
Per questi dialoghi e situazioni, per i sentimenti che è in grado di risvegliare e le riflessioni che questa stimolante pellicola suscita, “The Believer” è più di un semplice film che si avvale della sceneggiatura del bravo giornalista Mark Jacobson e della sensibilità del regista Henry Bean e dalla travolgente espressività di Gosling. Molto utile e educativo, sebbene decisamente provocatorio, scomodo e a tratti polemico, come “Arancia Meccanica” di Kubrick che creò al regista diversi problemi, il film è complesso e va filtrato dal buon senso data la forza delle sue immagini e dei contenuti e posso capire che tanti ne siano rimasti perplessi e spiazzati. Del resto l’originalità in questa epoca di banalità e di conformismo, di filmetti commerciali e “facili” è un dono preziosissimo e com’è giusto che sia il film si rivela spiazzante e splendido per forza narrativa e emotiva. Magistrale anche la scena finale dove Balint cerca di far saltare la Sinagoga ma alla fine si suicida e torna a litigare col suo professore di Torah in cerca del senso della sua esistenza.