Luogo:
Mondovì (Cuneo)
Fonte:
La Stampa
Qui ci sono ebrei” l’ultimo oltraggio alla maestra deportata
Mondovì, scritta sulla porta della casa del figlio di Lidia Rolfi
Prima donna in Italia a descrivere i campi di concentramento
CUNEO Primo Levi, dopo Auschwitz, veniva spesso qui. Da Torino a Mondovì, provincia di Cuneo. Saliva le scale, attraversava l’uscio della casa di Lidia, e si sedeva in cucina. Lì riempiva il silenzio con l’unica persona che lo avrebbe capito: una sopravvissuta come lui, Lidia Beccaria Rolfi. La sua casa, nella via che porta oggi il suo nome a vent’anni dalla morte, l’altra notte è stata profanata. “Juden hier”: qui ci stanno gli ebrei. Così qualcuno ha sfregiato di orrore la porta dei ricordi. Sotto ci ha messo l’altra stigmate: la stella di David. Fa male sempre. Nei giorni della Shoah ancora di più. E poco importa se il bersaglio fosse sbagliato: Lidia Beccaria Rolfi non era ebrea. Maestra, staffetta partigiana, fu tradita da una spia fascista in una vallata del Cuneese, internata per un anno a Ravensbrück come prigioniera politica. Aguerra finita tornò. Ma quell’orrore, anni più tardi, si trasformò in una scrittura senza sconti, nata come un modo per guardare dentro l’inferno e raccontarlo. E, se possibile, sopravvivergli. Esattamente come Primo Levi. «Lo ricordo, Primo, mentre arrivava a Mondovì per salutare mamma. Si sedevano e parlavano. Poi calava il silenzio. Ed era un momento loro, che nessuno poteva condividere. In un certo senso sono rimasti là, in un lager, tutti e due. Non ne sono mai più usciti» ricorda il figlio di lei, Aldo Rolfi. A spezzare quel legame, nato sulle ceneri dell’indicibile, fu infine il suicidio di lui. Oggi è Aldo, testimone di quel dialogo a due voci, a ricordare. E lo fa come sua madre, nelle scuole e tra gli studenti. Vivendo nella casa che è stata di Lidia. E poi tornando ogni anno in pellegrinaggio al «campo di mamma», come chiama lui Ravensbruck. «A casa nostra si parlava sempre dei campi. Io sono cresciuto a pane e deportazione. Mamma non mi ha mai nascosto nulla», ricorda lui. Non è sempre stato così. Non nella Mondovì del Dopoguerra e non in una famiglia contadina, dove le donne erano nate per essere mogli o madri. Non sopravvissute a un campo di concentramento. Allora meglio nascondere la polvere sotto il tappeto. Quel mondo, contadino, cuneese, in fondo doveva già fare i conti con la tragedia di Russia. I deportati, invece, erano ancora un’altra storia: raccontavano cose indicibili, troppo disumane per essere di questo mondo. Diventeranno parole e verità con lei. Ma solo anni più tardi. Come per Liliana Segre. All’inizio solo gesti quotidiani ricordavano che da certe cose non si guarisce mai. Come quella dispensa di Lidia, piena zeppa, perché la fame dei lager non te la togli di dosso. Poi altre piccole regole: guai a sprecare. E guai a non mangiare di tutto. Un’economia mentale che non ha mai abbandonato la prima donna in Italia a scrivere di campi di concentramento. Era il 1978 quando a doppia firma, sua e di Anna Maria Bruzzone, uscì le Donne di Ravensbrück, seguito alcuni anni dopo da “L’ esile filo della memoria”, racconto autobiografico. Lidia morì a 71 anni, nel 1996. La sua città non l’ha mai dimenticata. E ieri, sull’onda dell’emozione, tantissimi sono stati i messaggi di solidarietà e stima che, dalla politica alle istituzioni locali, hanno stigmatizzato l’offesa alla sua memoria. Dal Governo con le ministre Lucia Azzolina «profondamente turbata, quella scritta è un atto vergognoso. Con questo episodio si è superato il limite» e Fabiana Dadone che ha parlato di «un gesto che mi fa particolarmente male, visto che quella è la mia città» e il governatore del Piemonte Alberto Cirio che ha auspicato che «i responsabili vengano individuati al più presto e puniti con il massimo rigore». Mentre in serata la sua città ha voluto stringere idealmente il figlio Aldo e le parole che Lidia ha lasciato in un abbraccio: con una fiaccolata e un presidio antifascista a cui hanno aderito anche le associazioni partigiane. In ricordo di quella splendida resistenza interiore che dal lager le faceva scrivere: «Voglio vivere per tornare, per ricordare, per mangiare, per vestirmi, per darmi il rossetto. E per gridare a tutti che sulla terra esiste l’inferno». di Chiara Viglietti