Fonte:
Il Giornale
Autore:
Paolo Manzo
Attacco brutale al gran rabbino
In Argentina è incubo antisemitismo
San Paolo Dopo 25 anni torna in modo tragico il fantasma dell’attentato dell’Amia, l’associazione di mutua assistenza israelita-argentina, colpita da un furgone carico di tritolo: quel 18 luglio del 1994 a Buenos Aires morirono 85 persone e ne rimasero ferite centinaia. Venticinque anni dopo, Gabriel Davidovich, 62 anni, dal 2013 gran rabbino dell’Argentina e a capo dell’Amia, è stato brutalmente aggredito da un gruppo di sette sconosciuti. Introdottisi di notte nella sua casa di Buenos Aires gli hanno gridato contro «sappiamo che sei il rabbino dell’Amia» per poi rompergli 9 costole, perforargli un polmone, distruggergli la faccia e rubargli in casa, tutto questo davanti allo sguardo terrorizzato della moglie. Immediata la dura condanna di Israele. Per il premier Netanyahu «non bisogna permettere all’antisemitismo di rialzare la testa» mentre il presidente dell’Argentina Macri ha espresso parole di ripudio per l’accaduto garantendo il massimo supporto perché vengano individuati al più presto i responsabili. L’aggressione al gran rabbino arriva dopo che lo scorso fine settimana era stato profanato il cimitero ebraico di Buenos Aires. Per Jorge Knoblovits, presidente della Daia, la delegazione di associazioni israelita-argentina, non ci sono dubbi: «Il furto è solo una copertura, questo è un chiaro gesto di antisemitismo. Se questo atto rimarrà impunito come l’attentato dell’Amia o la morte di Nisman, l’impunità genererà nuova violenza». L’attentato dell’Amia è una delle pagine più nere del terrorismo di matrice islamica in America latina. A oggi è rimasto impunito. II procuratore che prese in mano il caso, Alberto Nisman, fu ucciso con un finto suicidio il 18 gennaio del 2015, esattamente il giorno prima di presentare in parlamento il suo rapporto di fuoco in cui accusava il governo di Cristina Kirchner di aver voluto insabbiare l’inchiesta per paura che venissero fuori le sue relazioni con l’Iran. Nel 2006 Nisman aveva accusato formalmente l’Iran di essere mandante dell’attentato tramite Hezbollah e aveva chiesto l’arresto nazionale e internazionale di 9 persone, tra cui l’ex presidente dell’Iran Rafsanjani e l’ex ministro degli Esteri Ali Akbar Velajati. Mente operazionale della strage era invece Mohsen Rabbani, l’uomo di Hezbollah in Sudamerica, uno dei terroristi più ricercati al mondo che in America latina ha vissuto e girato liberamente per anni. L’attentato fu preparato nei minimi dettagli da una rete di cellule che agivano nella Triple Frontera (tra Paraguay, Argentina, Brasile), in Brasile, in Colombia e in Argentina. I detonatori delle bombe furono a lungo tenuti in depositi al segreto alla Triple Frontera. Nell’attentato risultarono coinvolti persino personaggi della Jihad Islamica Egiziana come lo sceicco Tak-el Din, amico di Osama Bin Laden e di Khalid Sceikh Mohammed, la mente dell’attentato al World Trade Center dell’11 settembre, che ospita entrambi in Brasile alla Triple Frontera nel 1995 e che oggi vive tranquillamente nel paese del samba. L’aggressione al rabbino capo di Buenos Aires apre ora inquietanti interrogativi. Molti analisti da tempo sottolineano come l’ala militare di Hezbollah sia ormai fortissima in tutta l’America latina e che l’attuale crisi venezuelana stia ridisegnando la regione anche per Hezbollah. Che in Argentina – dove risiede la più grande comunità israeliana del continente – potrebbe muoversi ora in una nuova guerra asimmetrica contro Israele.