Fonte:
www.conspiracywatch.info
Autore:
Joël Kotek
Che cosa sarebbe la collaborazione tra sionisti e nazisti?
Mentre oggi l’Università Libera di Bruxelles conferisce un dottorato onorario al regista britannico Ken Loach, biasimato a causa delle sue ambigue posizioni sullo sterminio degli ebrei europei e il problema di antisemitismo che affronta il Labour di Jeremy Corbyn, Joel Kotek, ritorna sul significato del mito di una collaborazione tra il movimento sionista e il Terzo Reich, che costituisce il nucleo di quanto riguarda un’opera teatrale diretta da Loach alla fine degli anni ’80.
Il mito della collaborazione dei sionisti con i nazisti, che fu inventato nell’URSS, prosperò sia con i marxisti britannici che con i nazionalsocialisti francesi sul tipo di Soral, senza dimenticare, ovviamente, i sostenitori dell’islamismo e del nazionalismo arabo-musulmano. Ciò non è sorprendente se si ricorda che uno dei meccanismi chiave dell’antisemitismo è l’effetto specchio che consiste esattamente nel proiettare sull’Altro le proprie emozioni, le proprie false credenze, i propri complessi inconsci.
Il concetto di proiezione psicologica, richiamato da Freud nella sua analisi del caso Schreber, sembra particolarmente operativo. Considerato in termini di proiezione psicologica, l’antisemitismo deve essere inteso come un’operazione mediante la quale il soggetto espelle da se stesso e individua nell’altro dei sentimenti, delle carenze, dei fallimenti, dei difetti che preferisce reprimere. Non senza logica. Perché che cosa sarebbe il mito della collaborazione sionista con i nazisti, se non esattamente compromessi con il nazismo, qui, con i movimenti nazionalisti (Fiandre, Croazia, Ungheria, ecc.), là, con l’Internazionale comunista o, ancora, con le élite arabo-musulmane (Sadat)?
Se i sionisti non hanno fraternizzato con i nazisti, i sovietici, loro, fecero patti con il Terzo Reich, al punto di fornire acciaio e petrolio fino al 1941, proprio come molti leader musulmani, come lo Shah Reza di Persia e l’irachena Rachid Ali al-Gillani, che sognavano una vittoria nazista sugli alleati. E’ superfluo ricordare che il grande Muftì di Gerusalemme, Hadj Amine Al-Husseini, leader del primo movimento nazionale palestinese, implorò dinanzi a Hitler lo sterminio degli ebrei di Palestina, una volta incamerata la vittoria di Rommel sugli Inglesi. Questa sorda verità spiega perché così tanti attivisti della destra radicale, dell’estrema sinistra, della causa palestinese, dell’ultranazionalismo (il partito ungherese Jobbik per esempio) si attaccano alla favola della collaborazione sionista con i nazisti .
Alcuni potrebbero, tuttavia, essere sorpresi dell’ossessione anti-sionista dei militanti trotzkisti che non erano precisamente tragici e patetici errori della IV Internazionale contro il nazismo. Uno dei segreti meglio custoditi della Seconda Guerra Mondiale è quello del disfattismo rivoluzionario trotskista. Come ha sottolineato lo storico Maxime Steinberg in un brillante articolo [1], il movimento trotskista, di tutte le tendenze, pensò la Seconda Guerra Mondiale a immagine della Prima, in termini di “guerra imperialista”. Così, in Francia come nel Belgio occupato, il movimento trotskista si rifiuterà fino al dicembre 1943 di considerare il minimo atto di lotta armata contro l’occupante nazista. Perché? Perché “di fatto dietro un soldato nazista si nascondeva un lavoratore tedesco!” che era assolutamente necessario per vincere la causa proletaria. La IV Internazionale così arriverà fino a condannare la svolta patriottica dei PCF e PCB del giugno 1941; i comunisti, come i sionisti, del resto, erano più che mai inchiodati agli interessi della borghesia imperialista. L’idea era quella di porre sullo stesso piano le potenze fasciste e gli alleati, fino alla primavera del 1944 de Gaulle era definito “agente della City e dell’imperialismo britannico”. Nell’aprile del 1943, il delirio ideologico spinse il trotskista ebreo belga, Jakub Fajgelzon, a mettere in discussione lo scopo della rivolta del ghetto di Varsavia, sempre in nome del disfattismo rivoluzionario. Incapace di pensare al nazismo e all’olocausto, ovviamente giunse a condannare la “follia collettiva suicida degli ebrei di Varsavia”. La miglior difesa è sempre stata l’attacco, quindi non sorprende che gli eredi del trotskismo ortodosso arrivino oggi, con effetto speculare, a diffondere la favola della collusione dei sionisti con i nazisti.
Questo è il significato delle accuse assurde e deleterie di un Ken Livingstone o di un Ken Loach. Fu lui, il regista britannico, che nel 1987 prese l’iniziativa di mettere in scena Perdition, uno spettacolo dai connotati per lo meno negazionisti, se non antisemiti. Questa commedia di Jim Allen, difesa strenuamente da Loach, vede dei leader sionisti ungheresi negoziare con i nazisti l’esfiltrazione dei “sionisti” in direzione della Palestina, e questo, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Ritirata dalle sale ancora prima della prima, Perdition attribuisce la responsabilità dell’Olocausto non ai nazisti ma ai ricchi/capitalisti/ebrei sionisti.
Questa storia è assurda: fu in Svizzera, e non in Palestina, che il leader sionista ungherese Rudolf Kastner fece uscire, nel 1944, alcune migliaia di ebrei promessi a morte certa, tra i quali degli ebrei anti-sionisti come il famoso rabbino di Satmar. Come spiegare che gli ebrei sionisti ungheresi arrivarono a negoziare nel 1944 con i nazisti? Semplicemente perché sapevano che i nazisti stavano per deportare l’ultima comunità ebraica europea ancora risparmiata: circa 600.000 ebrei ungheresi diventati improvvisamente ostaggi di un regime genocida. È del tutto logico che arrivarono a tentare l’impossibile: negoziare con il diavolo, cioè direttamente con i sequestratori e questo, per cercare di salvare il maggior numero possibile dei loro correligionari. Non senza audacia, dato che non avevano altro da offrire ai carcerieri che la promessa di ipotetici camion che gli Alleati non avevano mai previsto di consegnare. Questo incredibile bluff ha salvato alcune migliaia di ostaggi. Ricordiamo che almeno 450.000 ebrei ungheresi furono gassati non appena arrivarono ad Auschwitz-Birkenau.
Note :
[1] Maxime Steinberg, « L’échec de la révolte une lecture paradoxale », in L’insurrection du ghetto de Varsovie, textes réunis autour de Raul Hilberg par Joël Kotek, éditions Complexe, collections Interventions, Bruxelles, 1994.
L’autore: Joel Kotek è un politologo, professore di storia alla Libera Università di Bruxelles (ULB) e docente presso Sciences Po Paris.
Poscritto: Nessuno smentisce l’esistenza dell’accordo di trasferimento (chiamato “Haavara”) che i sionisti tedeschi si sono rassegnati a firmare, nell’agosto del 1933, con la Germania nazista. Qual era il suo scopo: per i sionisti, esfiltrare quanti più ebrei possibile verso la Palestina mandataria; per i nazisti, sbarazzarsi a buon mercato di un certo numero di ebrei precedentemente spogliati di gran parte dei loro beni. Questo accordo, che ovviamente era vantaggioso per i nazisti, consentiva comunque di salvare circa 55.000 ebrei dal Grande Reich. Presentarlo come una forma di complicità “sionista-nazista” è ovviamente assurdo. L’anti-sionismo di Hitler è indubbio, come testimoniano gli unici due esempi relativi al sionismo nel Mein Kampf (1925), la “Bibbia” nazionalsocialista. Ai suoi occhi, il sionismo era stato inventato per “ingannare gli stupidi goyims ancora una volta nel modo più evidente”. I sionisti, scriveva Hitler, non avevano “alcuna intenzione di costruire uno stato ebraico in Palestina per stabilirsi lì; mirano semplicemente a stabilirvi l’organizzazione centrale della loro impresa ciarlatana di internazionalismo universale “. Paradossalmente, è il suo rabbioso antisemitismo che lo spingerà ad approvare l’accordo di trasferimento per sbarazzarsi a buon mercato (ed è il caso di dirlo) degli ebrei dalla Germania e dall’Austria. Perché la Palestina, nonostante le sue simpatie arabe e musulmane? Semplicemente, perché non c’erano altri stati pronti ad aprirsi agli ebrei tedeschi: dagli Stati Uniti alla Svezia, dall’Australia al Canada, passando per l’Unione Sovietica, tutte le porte si erano chiuse. Persino Stalin rifiutò, nonostante il patto tedesco-sovietico, i due milioni di ebrei che Hitler voleva cedergli. Rimaneva la Palestina mandataria con la quale i leader sionisti tedeschi avevano negoziato, dal 1931, delle agevolazioni per i trasferimenti di capitali verso lo Yishuv. Come spiegare che i sionisti arrivarono a firmare, nel 1933, un accordo che non aveva più nulla a che fare con ciò che avevano negoziato sotto la Repubblica di Weimar? Semplicemente perché non avevano scelta. Consapevoli delle minacce che ormai gravavano sugli ebrei tedeschi, si rassegnarono coraggiosamente a negoziare con il diavolo. Fu questa audacia che permise loro di salvare circa 55.000 ebrei da morte certa e questo, fino a quando gli inglesi, nel 1939, non chiusero il lucchetto della Palestina a causa dell’ostilità degli arabi su qualsiasi idea di accoglienza. J.K.