20 Ottobre 2016

Gemma Volli, Il caso Mortara. Il bambino rapito da Pio IX, La Giuntina

Fonte:

La Repubblica edizione di Bologna

Autore:

Marco Contini

1960, quando il caso Mortara fece fibrillare il Vaticano

Nell’800 il rapimento del bimbo ebreo bolognese aveva scosso le coscienze. Poi fu dimenticato, finché una ricerca lo riportò a galla. Ora il saggio toma in libreria. E presto arriverà il film

Non solo appassionata ricercatrice, ma anche un po’ veggente: «Al giorno d’oggi forse ci si farebbe un film», scriveva infatti Gemma Volli nel 1960 a proposito del Caso Mortara, l’affaire antisemita a sfondo ecclesiastico che scosse le coscienze alla metà del XIX secolo, anticipando di quattro decenni quello laico e nazionalista di Alfred Dreyfus. Profezia avverata. A quasi sessant’anni di distanza, quel film si farà. Grazie a Steven Spielberg, che lo ha scelto come soggetto; e forse anche alla stessa Volli, che in pieno Concilio Vaticano II ebbe il merito di riesumare una storia che era finita nel dimenticatoio, sovrastata dal tempo e dalle tragedie del secondo conflitto mondiale. E dire che all’epoca dei fatti, tra il 1858 e il 1860, il rapimento del piccolo ebreo bolognese, ordinato da Papa Pio IX in persona, aveva suscitato un clamore enorme, oggi diremmo “virale”, coinvolgendo comunità ebraiche in tutto il mondo, giornali, diplomazie, e financo l’imperatore di Francia Napoleone III che inutilmente provò a far recedere il pontefice. Nel 1960 Gemma Volli ricostruì la storia per la Rassegna Mensile di Israel, periodico ebraico di grande spessore. Ora quel saggio è stato ripubblicato da Giuntina ( “II Caso Mortara”, Firenze, 2016, 96 pagine, 10 euro) con una nuova prefazione del nipote dell’autrice, il semiologo bolognese Ugo Volli. Un volumetto agile che a partire dall’appartamento di via Lame 196, dove gli sgherri del Pontefice si presentarono il 23 giugno 1858 per prendere in consegna il bimbetto ebreo che la fantesca aveva battezzato in gran segreto, traccia un interessantissimo spaccato degli ultimi mesi della Bologna papalina, città ormai più che pronta a sciogliersi dall’abbraccio soffocante dello Stato della Chiesa e a unirsi al nascente Regno d’Italia ( l’addio avverrà nel marzo del 1860). Una città in cui le coscienze liberali si mobilitano nel rifiuto di quel precetto odioso e antiquato – stabilito dal concilio di Toledo nel lontanissimo 633 – che dava all’Inquisitore il potere di “salvare” i figli dei miscredenti, ove qualcuno ( poco importa se senza l’assenso della famiglia) si fosse preso la briga di battezzarli. Cosa che, nel caso di Edgardo Mortara, aveva fatto Anna Morisi, la domestica, sperando di affidarlo alla grazia del Signore durante una breve malattia. Quella stessa Bologna, subito dopo la secessione da Roma, arriverà a processare per sequestro di persona padre Feletti, l’ormai ex Inquisitore pontificio: ma lo assolverà perché questi aveva obbedito agli ordini di un suo superiore. E che superiore! Papa Pio IX in persona, suprema autorità religiosa e civile nella Bologna del 1858. Se il processo non servirà a fare giustizia, neppure la breccia di Porta Pia del 1870 servirà a riconsegnare Edgardo ai suoi: perché nel frattempo la conversione del piccolo aveva fatto il suo corso, e il giovane Mortara, ormai diciannovenne e nel frattempo ordinato sacerdote, deciderà di continuare a vestire la tonaca e di restare fedele alla Chiesa. Terrà rapporti con la madre e i fratelli ( il padre era morto di crepacuore), ma sempre a una certa distanza. Don Edgardo Pio ( così era stato ribattezzato ) morirà quasi novantenne in Belgio, 1’11 marzo del 1940, pochi mesi prima dell’invasione nazista. Chissà se lui, che restò fedele alla Chiesa e che a un certo punto tentò perfino – invano – di convertire al cattolicesimo la sua famiglia d’origine, con quel cognome sarebbe sfuggito alla deportazione.