Fonte:
Corriere della Sera
Autore:
Paolo Mieli
La strana guerra all’Isis e le amnesie europee
Ha dell’incredibile quanto l’Europa, nel tempo che intercorre tra un attentato islamista e quello successivo, sia incapace di essere all’altezza della situazione. Due giorni fa l’Isis ha compiuto stragi a Horns e Damasco provocando almeno centottanta morti e venti giorni prima ne aveva causati una settantina. Ma qui da noi è tempo di relax, al più di tranquille discussioni tra specialisti sulle prospettive militari in Siria o in Libia. L’Europa ama questo genere di pause ristoratrici.
Dziwna wojna, (strano conflitto) fu la definizione che per primi diedero i polacchi del curioso clima sul fronte occidentale dopo che nel settembre del 1939 il loro Paese era stato occupato da tedeschi e sovietici, Francia e Inghilterra avevano dichiarato guerra alla Germania nazista, ma poi fino al maggio del 1940 le armi sulla linea Maginot avevano taciuto.
Komischer Krieg fu lo sbeffeggiamento che giunse da Berlino. Finché il giornalista francese Roland Dorgelès, collaboratore del settimanale di estrema destra Gringoire, coniò un’espressione destinata a entrare nei libri di storia: drôle de guerre. Una strana guerra, effettivamente: per settimane e settimane nei caffè di Parigi si continuò a fare la vita di sempre e sui giornali se ne discuteva come se la conflagrazione non fosse già avvenuta. Persino al fronte fu come se si trattasse di una messa in scena.
Poi nel maggio del ‘40 le truppe hitleriane invasero la Francia che crollò su sé stessa e fu l’inizio di un catastrofico quinquennio che avrebbe prodotto decine di milioni di morti.
Ripete Niall Ferguson che ci ricordiamo delle nostre libertà soltanto quando siamo in presenza di atrocità come quelle di Parigi. Poi, dopo qualche mese, «l’oltraggio svanisce e toma l’illusione che si possa convivere tranquillamente con la crescita della popolazione islamica in Europa e che l’islamismo non cresca di pari passo». Sicché diventiamo insensibili ai destini di coloro che, prendendoci in parola, continuano a battersi sul campo. In un’intervista a ridosso della strage del Bataclan, il deputato pd di origini marocchine Khalid Chaouki disse: «L’integrazione è fallita, il buonismo di una certa sinistra fa il nostro male e ai musulmani servirebbe un Papa come Francesco». Le reazioni furono davvero fuori misura. Davide Piccardo coordinatore del Caim di Milano e Brianza: «Chiunque pensi che Chaouki possa essere un interlocutore politico per la nostra comunità si sbaglia di grosso, preferisco parlare con Salvini . Poi uragano su Internet: «I parassiti come Chaouki sono la malattia dell’umanità», «Se non fosse per i musulmani che si sono dati da fare per fargli prendere qualche voto, adesso sarebbe ai semafori a vendere fiori», «Sfigato e opportunista», «È un kebab-baro e un beduino», «E un cancro». Reazioni fuori misura, dicevamo, che avevano l’evidente obiettivo di zittirlo soprattutto nel suo meritorio intento di svegliare le coscienze islamiche non integraliste. Senza che nessuno, al di là di qualche suo compagno di partito, se ne desse per inteso.
E ancora. Kamel Daoud, un importante scrittore algerino, dopo i fatti di Colonia ha scritto un editoriale per Le Monde per denunciare la «miseria sessuale» del mondo arabo musulmano. Sullo stesso giornale è stato pubblicato un appello di una ventina di sociologi, storici e antropologi in cui lo si accusa di «riciclaggio dei più triti cliché orientalisti» e di «islamofobia». L’autore de Il caso Meursault ha risposto con una lettera sul Quotidien d’Oran in cui protesta contro coloro che gli «comminano una sentenza di islamofobia dalla sicurezza e dalle comodità delle capitali d’Occidente e dai suoi caffè». E sostiene di considerare immorale che con quel verdetto lo si «offra in pasto all’odio locale». Da questo momento, annuncia, si occuperà di letteratura e abbandonerà il giornalismo. Comprensibile, anche perché con quel genere di accuse non si scherza dalle parti di Orano. Imputare a qualcuno di odiare gli islamici in quanto tali, equivale a condannarlo a morte. Ha scritto Alain Finkielkraut che l’islamofobia è un ricatto: il concetto di islamofobia ricalca quello di antisemitismo, e facendo ciò non aiuta «a capire la specificità della situazione». Peggio: «Questa analogia in nome della lotta contro l’islamofobia, occulta la realtà eclatante dell’antisemitismo isla-mista». Discorso, quello sul ricatto e le minacciose implicazioni derivate dall’uso del termine «islamofobia», che non vale solo per le discussioni tra intellettuali. Un vicino di casa di Syed Farook e Tashfeen Malik (autori della recente strage di San Bernardino) ha riferito di aver notato, giorni prima, qualcosa di strano nel comportamento dei due, ma di non averlo riferito alla polizia per non passare per «islamofobo discriminazionista».
Mentre una parte della discussione pubblica si impantana sull’islamofobia, il resto prende il largo. Giusto il tempo di far sbollire l’ira dei giorni successivi a un attentato ed ecco che riemergono tesi sostanzialmente assolutorie nei confronti dei terroristi islamici. C’è chi si dice preoccupato più che dall’universo islamista «dalla nostra vera religione che è il neoliberismo, il fondamentalismo finanziario» (Hanif Kureishi). Chi denuncia essere il terrorismo «solo uno dei tanti pericoli esistenti al mondo» e suggerisce di «non farci distrarre». In che senso? Nel senso che «il cambiamento climatico è la più grande minaccia che dobbiamo affrontare»; e che, «mentre il terrorismo non può distruggere la nostra civiltà, il riscaldamento globale invece può farlo» (Paul Krugman). Chi dice che «è stata l’austerità a far esplodere gli egoismi nazionali e le tensioni identitarie» e che «solo con uno sviluppo sociale ed equo si potrà sconfiggere l’odio» (Thomas Piketty). Discorsi che, a ogni evidenza, ci allontanano dall’epicentro del fenomeno di cui si sta discutendo. Ai quali, per parte nostra, aggiungiamo un tocco di colore italiano. Con il governatore della Sicilia Rosario Crocetta che si paragona al «moderno principe» di Antonio Gramsci e si propone nel ruolo di mediatore per la crisi libica («Conosco l’islam, ho letto e studiato il Corano, parlo l’arabo: insomma qualcosa ne so»). Nonché il filosofo Gianni Vattimo il quale ricorda che durante il periodo del khomeinismo più repressivo in Iran, assieme ad altri aveva proposto di «bombardare Teheran con videocassette porno e confezioni di profilattici». E suggerisce per oggi analoghi sforzi di fantasia. Strana guerra, davvero, quella in cui ci diciamo impegnati contro il califfato islamico.