Fonte:
Moked.it
Autore:
Claudio Vercelli
Radicali senza radici
Esiste una destra radicale, oggi, e in caso affermativo in cosa consiste? Non di meno, si tratta di un’area politica capace di esprimere un qualche protagonismo oppure è solo un soggetto emarginato e, per più aspetti, residuale? Se negli anni Sessanta e Settanta essa costituiva un presidio ‘antisistemico’, ovvero avverso alla democrazia repubblicana in quanto tale, in Italia così come in Europa, il mutamento del campo del politico e della stessa politica ha senz’altro contribuito a mutarne una parte dei suoi connotati. Insieme ad essi, anche il suo radicamento e i soggetti che rappresenta a tutt’oggi. Il transito più importante è senz’altro quello che si è consumato nel rapporto con i fascismi storici. Usiamo il plurale poiché in Europa le esperienze fasciste, dalla fine della Prima guerra mondiale fino ai due decenni precedenti alla caduta del muro di Belino, nel 1989, sono state molteplici. Parte d’esse, come ben sappiamo, si sono costituite in veri e propri regimi politici. Alcuni effimeri, altri assai più consistenti. La matrice fascista era, nel qual caso, variamente pronunciata. Non sempre in maniera esplicita o comune – e quindi immediatamente riconducibile – ad un unico modello. Se esiste una tipologia di riferimento, a partire dall’esperienza italiana, concretamente vi sono state poi molte diramazioni. Altre esperimenti invece, si sono mantenuti all’interno di singoli movimento politici di opposizione, molto spesso minoritari. Sta di fatto che la destra radicale ha costituito l’area di riferimento dei neofascismi dal 1945 in poi. E quando si parla del radicalismo di destra si possono intendere molte cose ma la prima di esse è non solo la visione illiberale delle relazioni sociali bensì soprattutto l’avversione per qualsiasi forma di democrazia, intendendo tale regime politico come il governo dei mediocri e dei non aventi nessun titolo nell’esercitare diritti su di sé. Tale area politica e culturale si è alimentata delle rovine di quello che restava dei fascismi storici, a volte identificandosi anche con i motivi del nazismo, più raramente distinguendosene. Inutile rimarcare il fatto che razzismo e antisemitismo ne sono due architravi, mai abiurate, un po’ in tutte le concrete declinazioni possibili e immaginabili. La stessa sconfitta tedesca, e del patto politico-militare dell’Asse, è stata ossessivamente attribuita al ‘giudeo-bolscevismo’, alle sue mene e ai suoi complotti. In assenza di una totale coerenza logica e verosimiglianza storica, l’azione degli Alleati angloamericani a sua volta viene letta come il prodotto delle ‘forze occulte’ raccoltesi intorno all’ebraismo. La lettura della storia come di una dicotomia razzista, dove da un parte si collocano gli ebrei e i loro ‘servi’ e dall’altra le forze della razza pura, quella ariana, è quindi uno dei miti rifondativi della destra radicale. Si tratta, a stretto giro, di una sorta di tessuto connettivo, sul quale quell’area politica, ammaliata anche da un reducismo vissuto come la sconfitta dei giusti (“abbiamo avuto una sola colpa, quella di soccombere dinanzi alla forza soverchiante dei nostri nemici, tanto più immondi perché guidati da una razza infame”), ha cercato di raccogliere consensi. Tutto ciò è valso fino a lustri relativamente recenti. Poi, il cambiamento di scenario internazionale, con i processi di globalizzazione, già avviatisi con gli anni Settanta, accelerati nel decennio successivo e consolidatisi con il nuovo secolo, ha mutato i termini della questione. Anche la destra radicale si è dovuta confrontare con due fenomeni distinti ma interagenti: da una parte lo spostamento del baricentro dell’azione politica sui fondamentalismi a matrice religiosa, depositari di una visione non meno totalitaria di quella espressa dal neofascismo; dall’altra, la crisi della politica come terreno sia di rappresentanza che di decisione, quanto meno nelle società occidentali. I due fattori, non a caso concomitanti, hanno costretto la destra radicale a rivedere, a volte anche in maniera molto netta, alcuni dei suoi presupposti. La transizione, del pari a quanto è avvenuto in non pochi paesi d’Europa, si è consumata negli anni che accompagnano il 1989, ponendosi come un vero e proprio spartiacque tra un prima e un poi. Poste queste premesse storiche, quali possono essere le principali caratteristiche della destra radicale oggi? Essa sussiste senz’altro come arcipelago di gruppi variamente articolati, sospesi tra l’essere “partito”, aggregazioni continuative a sfondo sociale, movimenti politici. Peraltro, la tendenza a figliare da se stessa, staccandosi e rigenerandosi con nuovi nomi, è pari solo allo sfiancante esercizio fatto tra le file della sinistra estrema. Nel caso italiano, per intenderci correttamente riguardo ai soggetti dei quali si va parlando, è bene tuttavia circoscrivere l’area intorno a CasaPound, il Fronte nazionale di Adriano Tilgher e Tommaso Staiti di Cuddia (già Lega nazionalpopolare e poi Alternativa nazional-popolare), Forza Nuova, il Movimento fascismo e libertà (altrimenti detto Partito socialista nazionale) fondato da Giorgiò Pisanò, quest’ultima figura storica del reducismo saloino e icona del neofascismo più tradizionale, il Movimento sociale-Fiamma tricolore, attualmente retto da Attilio Carelli (dopo la fuoriuscita di un congruo numero di dirigenti e l’espulsione di Luca Romagnoli, quest’ultimo fondatore infine di Destra sociale) e il Mis, Movimento idea sociale fondato da Pino Rauti sei anni prima della sua morte, come scissione dalla formazione precedente. Tutto intorno, c’è una polvere di micro-sigle che come nascono muoiono anche molto velocemente. Se tuttavia si intende come destra radicale un habitat sub-culturale, oltre alle diverse organizzazioni politiche, allora occorrerebbe riflettere sui circuiti musicali ‘alternativi’, così come sui luoghi fisici di aggregazione, a partire dalle curve degli stadi e dalle organizzazioni di ultras. Necessario sarebbe poi indagare, per estensione, in alcuni ambiti non strutturati del Movimento 5 stelle, soprattutto laddove sono transitati elementi che, pur non vantando una precedente militanza organica alle formazioni della destra radicale, tuttavia hanno conferito in quota capitale argomenti e suggestioni permutati da quell’area. Ad esempio, l’attenzione in politica estera per l’Iran, visto come una legittima potenza teocratica (quindi rigorosamente antidemocratica) e il marcato antisionismo. Si tratta di un esercizio sottotraccia, in quest’ultimo caso, dovendo vagliare i sedimenti nelle pieghe del discorso politico, ma che meriterebbe di essere condotto con un’attenzione che spesso difetta, riconducendo invece il tutto al calderone populista. Che di per sé spiega sempre meno. Così come ancor di più tale indagine si impone per alcune componenti della Lega di Matteo Salvini. Detto questo, rimane il fatto che la traccia comune, tra l’ampio pulviscolo di gruppi, organizzazioni, soggettività e quant’altro che entrano di buon grado a comporre il mosaico del radicalismo di destra, è il rimando all’aggettivo ‘sociale’. La destra radicale odierna, infatti, si intende come un soggetto sociale, laddove con ciò indica la sfera di azione sotto la quale essa si è rigenerata, nel nome di una veracità e di un’autenticità che alle altre forze politiche, rappresentative di interessi sovra-ordinati rispetto alla società, mancherebbero. A tale riguardo, quindi, non afferma di ritenere prioritario lo Stato, lo Spirito, la Tradizione (espressioni un tempo abituali, comunque ancora adottate con la maiuscola, a segnarne l’indiscutibile rilevanza, ma oramai solo per una platea di eletti, ossia di iniziati). Alla collettività si rivolge, semmai, rinviando al bisogno di una rappresentanza nei termini dei suoi bisogni materiali. Tradizionalmente, questo era il campo della sinistra, lasciato ora perlopiù indifeso anche per l’oggettiva difficoltà nel raccogliere in categorie unitarie (classi, ceti, gruppi omogenei) i soggetti dell’azione politica. L’aggettivazione ‘sociale’, per la destra radicale, si declina in tre modi: il sovranismo, l’etnicismo e l’identitarismo. Il sovranismo rimanda alla difesa materia e simbolica di uno spazio fisico, identificato con il territorio e la giurisdizione dello Stato nazionale (in ciò recuperando l’approccio statolatrico già presente nei fascismi storici ma non nel nazismo). L’etnicismo è la perimetrazione di tale spazio attraverso il rinvio al vincolo di stirpe, perlopiù inteso come comunanza, se non identità, di cultura basica, ossia condivisione di un set di elementi, anche fisiognomici e razzisti, ma soprattutto comportamentali, linguistici e relazionali che stabiliscono una reciprocità assoluta tra i membri del gruppo. La fissità di tali caratteri, nonché la loro astoricità, che li rende quindi indisponibili a qualsiasi negoziazione con terzi, pone i membri stessi in un perimetro identitario che è tanto più forte quanto poco o nulla disponibile al confronto con ciò che fuoriesce dalla dimensione autoreferenziata. L’identitarismo diventa così la risposta alla democrazia e alla sua crisi: se essa declina, come insieme di funzioni di garanzia condivise, di rappresentanza collettiva e di redistribuzione della ricchezza sociale prodotta, il comunitarismo identitario, il sentirsi parte di un’unica “patria”, sancita non dalla cittadinanza bensì dall’identità etno-razziale, viene proposto come la soluzione ai molti dilemmi che tale declino produce. In poche parole: laddove la globalizzazione è neutralizzazione dei confini tra gli Stati, con il senso di vertigine che da ciò deriva, per la destra radicale la risposta a tale stato di cose sta nell’accettare la sfida che un simile processo storico implica costruendo un nuovo perimetro basato non sull’eguaglianza dei diritti ma sull’omologia dei caratteri biologici e culturali. Il caso ungherese si inscrive di buon grado in questa dinamica.
Nella destra radicale un conflitto egemonico si è svolto in questi due decenni è ha visto contrapposte essenzialmente due entità. Da una parte Forza Nuova, movimento-partito nato negli anni Novanta, come punto di riaggregazione dell’area, su ispirazione e guida di Roberto Fiore e Massimo Morsello. I due leader condividevano una pregressa militanza nel microuniverso delle organizzazioni dell’eversione della destra capitolina, almeno a quanto la magistratura ha poi appurato. Dopo un periodo di cattività a Londra, il ritorno in Italia si è accompagnato all’ambizione di dare un nuovo volto ad una intera area politica, espandendone le potenzialità e le capacità aggregative. A seguire, con uno scarto temporale di alcuni anni, nel 2003, avviene la nascita di CasaPound, poi CasaPound Italia dal 2008, definitasi “associazione di promozione sociale”. In questo secondo caso le caratteristiche di innovazione sono estremamente marcate. L’autodefinizione (ed evidentemente la considerazione di sé) è, infatti, quella di “fascisti del terzo millennio”. Si tratta di qualcosa di più di uno slogan. Intanto, va detto che la nascita di CasaPound si inserisce dentro un processo che chiama in causa un’area subculturale e sociale, quella delle cosiddette “occupazioni non conformi” e “occupazioni a scopo abitativo”, il cui significativo precedente era costituito dall’esperienza di CasaMontag, nei pressi di Roma. Si aveva a che fare – secondando per alcuni aspetti un criterio che già in alcuni segmenti della sinistra radicale, spesso di matrice anarchica, stava portando alla creazione di Centri sociali autogestiti – di dare una finalità residenziale e di socialità all’azione politica. L’idea di fondo era quella di coniugare gli spazi del territorio lasciati a sé (a partire dagli stabili residenziali abbandonati) con una collettività composta non solo da militanti politici, già ideologicamente formati, ma anche da famiglie. Il fuoco dell’azione era soddisfare un bisogno altrimenti destinato a rimanere lettera morta, quello dell’abitazione in un regime di ‘social housing’, espressione con la quale si indica la volontà di offrire sia alloggi che servizi condivisi a coloro che non riescono a soddisfare il proprio bisogno abitativo sul mercato (per ragioni economiche come per mancanza di un’offerta adeguata), cercando di rafforzarne la condizione contrattuale, la loro capacità gestionale, la creazione di spazi condivisi e di cogestione di varie funzioni. La centralità organizzativa della Capitale emerge in questo progetto come in altri casi: Roma, con gli anni Novanta, come già era valso per Forza Nuova, torna ad essere il centro dello sviluppo del radicalismo di destra scalzando, nel suo primato, sia Milano che altre città le quali, per storia così come per insediamento politico, nel corso dei decenni precedenti avevano svolto un ruolo di primo piano. Non di meno, la rigenerazione della destra radicale si incontra, non solo per un effetto di sincronia e corrispondenza temporale, ma anche come risultato di una sorta di mutamento culturale generale, con la vittoria del centro-destra guidato da Silvio Berlusconi. Un po’ per tutta l’area delle destre (anche in questo caso il plurale è d’obbligo), da quella neoliberale – lontanissima dal neofascismo – a quella radicale e antidemocratica, lo spirito del tempo sembra propizio ad una revisione sia dei presupposti della democrazia repubblicana sia del proprio stesso modo di essere. Peraltro, il primo partito a beneficiare di tale situazione fu lo stesso Movimento sociale italiano, poi Alleanza nazionale che, con il suo segretario Gianfranco Fini, conobbe non solo uno ‘sdoganamento’ politico ma anche una legittimazione a governare. La quale, nel passato, invece, gli era stata riconosciuta solo sottobanco, come forza occasionale di appoggio sul piano parlamentare, all’interno della contrattazione partitica. Forza Nuova e CasaPound, per parte loro, recuperano due temi identitari da essi ritenuti tanto forti quanto motivanti: la visione del fascismo in chiave non più strettamente reducistica (quindi una minore concessione ai temi sia del fascismo-regime che dell’esperienza saloina) e, al medesimo tempo, la dichiarazione di volere superare la dicotomia tra destra e sinistra a favore di una sorta di sintesi ideologica. Va rilevato che, almeno in questo secondo caso, si tratta di una posizione non nuova nel radicalismo di destra. Lo stesso neofascismo tradizionale, quello che si confronta, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, con le trasformazioni della società italiana, aveva espresso il suo malessere in tali termini, idealizzando una posizione che andasse “oltre” l’esistente. Senza peraltro offrire nulla di credibile, se non nel dare corpo al proprio dissenso verso il Movimento sociale di Giorgio Almirante, alternativamente accusato di moderatismo, compromissione con gli interessi più conservatori, collusione con gli apparati “deviati” dello Stato, opportunismo e politicismo. Tra le critiche di allora e la rigenerazione degli anni Novanta stava però di mezzo l’esperienza degli «anni di piombo», dello stragismo, dello spontaneismo armato (che a Roma aveva assunto una piega efferata, dai Nuclei armati rivoluzionari a Terza posizione) ma anche, su un altro versante, la Nuova destra di Marco Tarchi, dove le cose avevano preso una piega più pronunciata, virando verso l’area dell’azione ‘meta-politica’, prima intesa come impegno culturale, poi come sfumato intervento sociale. CasaPound, a conti fatti, raccoglie e rielabora gli echi di queste suggestioni di lungo periodo. In questo scavalca abilmente Forza Nuova, riuscendo a miscelare temi più tradizionali e congrui al neofascismo (dallo spiritualismo alla visione gerarchica dell’organizzazione sociale, tra gli altri) con il bisogno diffuso di tradurre la politica in azione concreta. Ciò facendo, non intende necessariamente tale esercizio come ricorso alla forza nei confronti delle controparti, semmai adoperandosi nell’assunzione di alcuni elementi della cultura popolare diffusa e di quella di matrice pop, quest’ultima rielaborata attraverso il rapporto con i mezzi di comunicazione (fatto che si traduce nella partecipazione alle trasmissioni televisive delle reti nazionali e ad una robusta presenza nei network comunicativi). La prassi delle occupazioni degli stabili abbandonati, che prosegue nel corso del tempo, si inscrive all’interno di questa logica di presenza sociale e territoriale. Lo stesso riferimento ad una figura intellettuale come il poeta Ezra Pound, e ai suoi “Cantos”, indica lo sforzo di dare di sé una immagine non convenzionale, anche se i motivi di fondo (la lotta all’”usura”, la “terza posizione” tra capitalismo e comunismo, la rilettura dell’esperienza della Repubblica sociale italiana come esperimento atipico rispetto ad altri fascismi) rivelano il totale ancoraggio ad una parte cospicua del patrimonio ideologico neofascista. Dei diversi tentativi di tradurre questo insieme di esperienze in capitale politico (come l’alleanza con il Movimento sociale-Fiamma tricolore, velocemente abortita, oppure la presenza di propri candidati in liste civiche locali o legate al centro-destra, fino alla presentazione di liste autonome) probabilmente l’evento più significativo è il sostegno, durante le elezioni europee del 2014, alla candidatura di Mario Borghezio nella circoscrizione Italia centrale. Il successo dell’iniziativa ha dato corpo ad una serie di scambi tra CasaPound e la Lega di Matteo Salvini, sulla base di una concezione sovranista dell’azione politica (ripristinare le piene prerogative dello Stato nazionale), anti-europeista (contro l’Unione “bancaria”, a favore dell’”Europa dei popoli”), avversa all’immigrazione e alla mixité (cioè all’ibridazione delle comunità e delle culture), identitaria e neonazionalista nonché ostativa del “signoraggio bancario”, termine che ha sostituito il richiamo all’usura. Il rapporto, a tutt’oggi in corso, tra le due entità politiche, più che segnare una accresciuta sensibilità del movimento della destra radicale verso il leghismo, inversamente, è dovuto perlopiù allo spostamento di baricentro culturale e politico, nei riguardi del repertorio fascistoide, della Lega sotto la segreteria di Matteo Salvini. In altre parole: è la Lega che si è mossa verso quella destra, abbandonando alcuni temi più strettamente regionalisti, secessionisti o pseudo-federalisti. A fianco delle organizzazioni di maggiore consistenza, si registra poi un pulviscolo di entità minori, come la versione italiana di Alba dorata, partito dalle buone fortune elettorali in Grecia; la nuova edizione del Movimento fascismo e libertà-Partito socialista nazionale, che “si rifà solo e semplicemente al fascismo, quel fascismo che nacque come terza via fra socialismo e destra liberale, e che seppe conciliare, grazie alla genialità del Duce, una pluralità di uomini provenienti dalle esperienze politiche e sociali più disparate”. Anche e soprattutto da ciò la considerazione per cui esso “non è un movimento di destra, ma dichiaratamente fascista; non ha nulla a che fare con la destra, sia essa moderata, estrema, sociale e quant’altro”; la Destra nazionale di Gaetano Saya, completamente assorbita dal tema della lotta all’immigrazione; l’organizzazione Militia, piccolo network che ha il suo leader in Maurizio Boccacci, esponente di punta della destra extraparlamentare capitolina, attivo già negli anni Settanta; la grande quantità di gruppi, associazioni e nuclei che, soprattutto nel nord d’Italia, si richiamano all’eredità fascista ma anche a quella nazionalsocialista, a partire dal Veneto Fronte Skinheads, figliato dal circuito Rock Against Communism nella seconda metà degli anni Ottanta; il centinaio di gruppi ultras dichiaratamente di destra estrema. In questo microuniverso, la destra radicale ha quindi rinegoziato con se stessa i suoi presupposti culturali, ideologici e politici. Il revanscismo, ma soprattutto il nostalgismo, non le risultano più sufficienti da molti anni. Un primo tentativo di uscire dal “ghetto dell’esilio in patria” erano state le scissioni silenziose avvenute nel Movimento sociale italiano durante gli anni Settanta. Se alcune privilegiavano ancora l’azione anticomunista, fino alla deriva stragista di certi segmenti, altre, completamente diverse, si ponevano nell’ottica di fecondare una frattura intergenerazionale, come la già ricordata Nuova destra di Tarchi. Oggi, tuttavia, la destra radicale si dà essenzialmente come tentativo di risposta ai processi di globalizzazione, di cui ne denuncia la logica omologante. Lo fa sollecitando, nelle società in crisi di ruolo e funzioni, il bisogno di recuperare una dimensione comunitaria, su base etnica, basata sul riordino dei due assi spiazzati dalle crisi indotte dalla ‘mondializzazione’: lo spazio, abbandonato a sé dalle élite e recuperato dalla destra radicale attraverso la presenza nel territorio; il tempo, accelerato e polverizzato clamorosamente dai mutamenti: di quest’ultimo, la destra radicale dice, a quanti sono disposti ad ascoltarla, che c’è una prospettiva possibile, in divenire, che ingloba in sé non il tempo della rivoluzione ma quello della restaurazione di un ordine di senso su base rigorosamente gerarchica e verticale. Si tratta di dare vita, dal caos delle contaminazioni, ad un nuovo ordine. In tale prospettiva tutto ciò va quindi contrapponendosi a quella globalizzazione che si presenta, inversamente, come un processo orizzontale, destinato invece a rompere gerarchie e a creare una falsa informalità, basata sull’accesso indiscriminato a una serie infinita di sollecitazioni, senza però che vi siano codici di fruizione condivisibili. Il social housing di CasaPound, se in tali termini si deve parlare delle occupazioni di stabili (come anche dell’attività solidaristica messa in atto con il gruppo della “Salamandra”, inteso come “nucleo di protezione civile”), si ridisegna su queste coordinate, ben sapendo che l’appello politico è, da se stesso, nella sua unicità, oramai del tutto insufficiente in tempi di ‘società liquida’
Il pensare la destra radicale, come area politica o comunque come spazio della politica, di prassi induce a ricondurne i contorni e il perimetro all’interno dell’universo neofascista e, per estensione, a quello neonazista. Ma la nozione medesima di destra radicale, con le trasformazioni intervenute nel campo della politica, non può essere ridotta alla semplice traslazione al presente di quell’area, come se si trattasse di un tutt’uno, priva di conflittualità al suo interno e capace di riprodursi nel tempo senza mutamenti di sorta. L’orizzonte è quindi più ampio e problematico. Non necessariamente rimanda sempre e comunque ad un qualche fascismo di ritorno. Si pensi, ad esempio, alla pervasività del fenomeno populista, alla sua grande rilevanza nell’età che stiamo vivendo, per più aspetti alla sua inclassificabilità rispetto a categorie, concetti e pensieri maggiormente rodati. Nel populismo, infatti, precipitano esperienze concrete e significati ideologici tra di loro anche antitetici, tenuti insieme dal rimando al “popolo” come entità dotata di una sovranità assoluta, diretta, immediata, onnisciente, capace di esprimere una volontà massificata, unificata, unidirezionale, a tratti quasi mistica. Una mistica del e per il ‘popolo’, quindi, di cui già un Mussolini, a suo tempo, nel fare l’elogio dell’“Italia proletaria”, capace di contrapporsi energicamente alle “demoplutocrazie”, si riteneva depositario. Per buona parte della destra radicale il termine medesimo di popolo rinvia, quanto meno implicitamente, ad un’unità organica di individui etnicamente omogenei. Il populismo comunitarista, al quale una parte della Lega di Matteo Salvini risulta sensibile, è una interessante sintesi di questo trend sociopolitico. Il quale, peraltro, si alimenta della specularità tra crisi degli ordinamenti democratici, fatto che si sta verificando un po’ in tutti i paesi a sviluppo avanzato, e loro sostituzione con forme di rappresentanza degli interessi e della collettività attraverso identità ‘popolari’, le quali non rinviano ad appartenenze di ceto o di classe ma ad una sorta di comunione degli indistinti, raccolta dalle rivendicazioni di formazioni politiche che nutrono una visione totalitaria dell’azione politica. In essa non c’è conflitto e mediazione ma solo distruzione del nemico, ossia di chiunque non sia identico all’idea che si nutre di se stessi. In una ipotetica linea di continuità, dentro la quale inserire tutti i temi possibili che connotano la destra radicale, alle due estremità si potrebbero identificare il comunitarismo etnicista e l’iperliberismo più sfrenato. Non si tratta di caratteri culturali e politici necessariamente antitetici, potendo trovare anche momenti e condizioni di condivisione, se non di contaminazione. Tuttavia, nei loro tratti fondamentali, nella loro essenza elementare, segnano due concezioni distinte della politica medesima. Nel primo caso, infatti, il livello di riferimento rimane la comunità, ossia la dimensione collettiva, ancorché perimetrata dalla condivisione di un’appartenenza etno-razziale rigida e immodificabile. La centralità del discorso sul mito, in questo caso, è indiscutibile: il mito delle origini, il mito delle tradizioni, il mito dell’identità. L’esistenza, quindi, come realizzazione del mito attraverso il sodalizio degli identici. Un fantasia, per molti aspetti, a patto, tuttavia di non considerare mito e mitologizzazione l’inverso della realtà, trattandosi semmai di una narrazione, in forma sacralizzante, del fondamento delle relazioni sociali. Nel secondo caso, invece, è la soggettività dell’individuo, inteso essenzialmente come agente razionale, inserito in una rete di relazioni mercantili, a fare premio su tutto il resto. L’idea di fondo, in quest’ultima accezione, è che la libertà faccia il paio con l’individualità più spiccata, quella che osserva con perplessità, che poi si trasforma in ostilità, ogni evento collettivo che non sia riconducibile alla libera contrattazione nei mercati. Dentro tale costrutto, al netto individualismo si accompagna anche un atteggiamento anti-istituzionale, per più aspetti anarcoide, il quale osserva con diffidenza, se non avversione, ogni forma di intervento pubblico, quest’ultimo inteso essenzialmente come un esercizio intrusivo nell’esistenza privata. Una sfera, la privatezza individuale, che non necessiterebbe di sostegno alcuno che non sia quello che le derivi da una forma di auto-sostentamento. Tra esaltazione del mito della comunità di appartenenza (massimo livello di identificazione e compressione dell’individuo in un organismo collettivo) ed enfatizzazione di una razionalità economica individuale che si riproduce da sé, non necessitando di corpi intermedi e di mediazioni (il più alto livello possibile di soggettività, che fa a meno di qualsiasi raccordo con una qualsiasi forma di organizzazione sociale) si collocano quindi i soggetti della destra radicale nell’età della globalizzazione. Nel primo caso sussiste il maggiore addensamento di soggetti: abbiamo un epicentro – che è anche un vero e proprio laboratorio continentale – con l’Ungheria, attraverso Jobbik e la Fidesz. Nel secondo caso, invece, vanno semmai raccolte alcune pulsioni (piuttosto che specifiche organizzazioni) della destra del Tea Party, anche nella loro rifrazione post-atlantica, ossia all’interno del continente europeo. In altre parole: il radicalismo di destra, all’interno del complesso e composito spazio della politica contemporanea, può contemplare la statolatria, l’esaltazione del sovranismo, il rimando ad una comunità politica fortemente connotata dal punto di vista della sua ‘identità’ e, quindi, del perimetro storico e spaziale, così come il più esasperato individualismo, quello che promette un futuro a chi saprà fare a meno di qualsiasi sostegno collettivo che non sia quello dei propri immediati, diretti omologhi. Nel primo caso l’individuo viene completamente inglobato nella dimensione pubblica, essendone solo un piccolo frammento, un elemento in una sequenza uniforme. Nel secondo, invece, vive di luce sua propria, in una specie di ipertrofia di se stesso e di sogno, a tratti delirante, di autosufficienza. Le milizie paramilitari presenti in alcuni Stati americani, ad esempio, estranee al governo federale, se non in aperta opposizione, enfatizzano quest’ultimo aspetto, di contro alla tradizione militare che, invece, valorizza la dimensione della disciplina intesa come adesione ad un canone di lealtà condivisa. In comune, tra le prime e la seconda, c’è il rapporto esclusivo con la forza. Ma mentre negli eserciti il ricorso alla violenza è in funzione della giurisdizione sovrana che essi esercitano, con il ricorso al suo monopolio legale, essendo questa una funzione essenziale e una prerogativa imprescindibile dello Stato moderno, le milizie puntano all’effetto esattamente opposto, intendendo delegittimare e destrutturare la legittimità di una organizzazione politica pubblica qual è, per l’appunto, lo Stato (di diritto). Detto questo, un’altra discriminante nella galassia della destra radicale è il rapporto con la religione: ci sono partiti, organizzazione e gruppi di matrice cristiana tradizionalista, organizzazioni laiche, gruppi neopagani e gruppuscoli filo-islamisti. Di fatto esercitano una sorta di coesistenza competitiva, trovandosi, nel qual caso, su crinali esattamente opposti. Dopo di che, diventa più difficile collocare nella destra radicale soggetti come il Front National di Marine Le Pen, la cui matrice populista sta conoscendo dei cambiamenti, anche in rapporto a concreti obiettivi politici e istituzionali, mentre, sempre per rimanere sul piano dei riferimenti, va senz’altro ascritto all’area radicale il Groupement de Recherche et d’Études pour la Civilisation Européenne (GRECE) fondato di De Benoist. In generale, tutta la Nouvelle Droite – Nuova destra pare a pieno titolo ancora ancorata ad un discorso radicale ma la diagnosi sulla consunzione dello spazio politico come luogo per eccellenza della decisione nella società contemporanea, è divenuto l’aspetto distintivo della sua proposta culturale, temperata solo dall’interesse per le esperienze populistiche. In generale, la Nuova destra continua a manifestare la sua diffidenza profonda sia per la democrazia che per il liberalismo. Detto questo, e ritornando ad una visione più generale, come in tutti gli arcipelaghi politici, così come tra le forze che li compongono, le trasformazioni avviatesi negli anni Settanta e Ottanta e culminate – infine – nel combinato disposto tra la crisi, e poi il tramonto, del bipolarismo geopolitico a fronte della globalizzazione dei mercati e delle comunicazioni, hanno concorso a creare una crisi di significati e di senso anche nella destra radicale. Evitando le banalizzazioni che rinviano alla ‘fine della storia’ o all’inapplicabilità delle categorie dicotomiche, a partire da quella che divide la destra dalla sinistra, ancora una volta va ricordato che sono semmai mutate le coordinate dell’agire politico come la natura stessa del politico. La destra radicale da sempre si è andata facendo aedo e vessillifero della centralità del ‘politico’ – inteso come sfera di realizzazione della dimensione spirituale, organicista e gerarchica della società – di contro alla gratuita brutalità della sfera ‘economica’ e materiale, di cui la democrazia, come governo della mediocrità, costituirebbe un punto di non ritorno. Enfatizzando quindi la vittoria del primo sulla seconda, si investiva del carattere di portatrice di utopia a venire. Ma i concreti riscontri che ci derivano dalle trasformazioni di questi ultimi trent’anni sono andati in ben altro senso. A lungo la destra radicale di matrice intellettuale ha risposto a tale configurazione degli eventi rivendicando a sé un carattere ‘meta-politico’, sottratto quindi alla verifica dei dati di fatto. Già lo si è sottolineato. Questo atteggiamento,
tuttavia, pare oggi insostenibile. Il mutamento in corso apre infatti ad inedite possibilità di intervento politico. Il discorso etno-differenzialista, la socialità comunitarista di contro al senso vertiginoso di perdita dei confini che la globalizzazione induce in molti, la difesa dello spazio come del luogo non solo di una ‘tradizione’ identitaria ma di una più generale comunione tra identici, sono snodi strategici nella riformulazione di una posizione d’intervento politico diretto. Anche da ciò si dipana il tessuto ideologico e simbolico della nuova destra radicale, con le sue articolazioni a rete: sovranismo e comunitarismo identitario; anti-signoraggio bancario e finanziario; nazionalismo e ‘piccole patrie’; tradizionalismo e religiosità acritica, fondata sulla ‘guerra dei simboli’; rifiuto dell’immigrazione in quanto atto d”invasione’; ossessione per il monosessualismo (rapporti intimi e relazioni sociali tra soli omologhi); sessualizzazione del discorso politico (sulla scia già tracciata, a suo tempo, da Mussolini); elitismo (il governo non degli eletti ma dei benedetti dalla “tradizione”) coniugato a populismo (appello al popolo come massa indistinta, al quale richiamarsi per accreditarsi come soggetti politici); il socialismo nazionalista; l’interventismo e l’elogio dell’atto di forza; il rifiuto radicale dell’islamismo politico o l’identificazione integrale in esso, soprattutto nella sua versione sciita e jihadista.Questa intelaiatura di suggestioni si rivolge ad una pluralità di destinatari. Esistono canali di comunicazione differenziati, a seconda dei soggetti target, essendo ben distinto, a tutt’oggi, l’elemento militante da quello simpatizzante. Le formule adottate nel primo caso hanno una valenza prevalentemente ideologica, dovendo rafforzare il sentimento di appartenenza, già esistente. Nel secondo caso, laddove si ha a che fare con un piccolo arcipelago, dove le diverse formazioni si muovono spesso in competizione tra di loro, il rimando è all’aggregazione sociale (i temi della deprivazione economica, dell’abitazione e del territorio sono oggi un campo di incursione ideale, essendo stati lasciati completamente a sé da ciò che residua della sinistra) e alla comunicazione online. In genere, la militanza ha ancora una forte connotazione ‘fisica’, richiedendo la presenza in campo, degli aderenti. Il numero dei quali è relativamente contenuto, a fronte di un bacino, aggregabile sulle piattaforme web, la cui consistenza non è facilmente misurabile. Vettore aggregativo, ma sempre per un’area ristretta, perlopiù militante, rimane la musica. Dalla seconda metà degli anni Settanta in poi – a partire dall’azione sociale e identitaria sviluppata con le esperienze di Campo Hobbit, e il generarsi, nel decennio successivo, di un circuito di gruppi musicali ‘alternativi’, in un processo che rispecchia, sia pure su un piano politico capovolto, tanto la depoliticizzazione quanto la risocializzazione di alcune aree della sinistra antagonista – una parte della destra radicale ha virato dalla progettualità politica (e quindi dalla centralità del tema dell’organizzazione, perlopiù autoreferenziata) a quello dell’intervento sociale. Un parallelo interessante è quello che si potrebbe tentare di verificare, senza pervenire da subito a conclusioni inossidabili, con i movimenti di reislamizzazione dal basso operanti in Medio Oriente, come Hamas e Hezbollah. Questi ultimi, prima e più di altri, hanno capitalizzato la crisi del terzomondismo laico, delle militanze nei partiti e nei gruppi perlopiù della sinistra marxista, proponendosi prima come interlocutori del disagio e dello smarrimento che da ciò derivava, poi come validi sostituti. Non è allora un caso se elementi di CasaPound trovino, o pensino di potere trovare, interlocutori in quegli ambienti. Negli anni Sessanta e Settanta i referenti delle destre fasciste e radicali nell’area erano il Kataeb e il partito falangista dei Gemayel, assai più prossimi ai modelli di organizzazione politica europei di quanto non sia stato lo sciismo iraniano nella sua versione rivoluzionaria, che ad essi si è in parte sostituito nelle ipotesi di azione politica. Oggi, infatti, l’attrazione esercitata dalle milizie islamiste, è un elemento che trova il suo unico vincolo laddove i militanti vivono la presenza musulmana come una minaccia all’integrità cristiana del continente europeo. Ma, come già si è avuto modo di sottolineare, la destra radicale è divisa al suo interno tra quanti rifiutano integralmente i musulmani e quanti, invece, attribuiscono ad essi una concezione totalitaria e integralista – in sintonia con il proprio sentire – del mondo e della sua riorganizzazione in chiave ‘anti-imperialista’. Un ultimo elemento da considerare sono le tendenze e le idealizzazioni antisemite, connaturate alla destra radicale nella proporzione e nella misura in cui l’ebraismo continua ad essere accostato all’artificiosità e all’innaturalità esistente nel mondo. L’ebreo è l’agente patologico della modernità, che scardina gli equilibri costituivi dell’ordine delle cose, quello stabilito da una qualche potenza superiore e inscritto nel libro della vita. Il mandato che le organizzazioni di quest’area si sono date è quello di ripristinare una presunta ‘naturalità’ nelle relazioni sociali, in genere attribuita all’imperio della ‘tradizione’. Mentre il mondo pensato dal radicalismo di destra è immodificabile, poiché destinato a vedere trionfare, prima o poi, il bello e il giusto, l’ebraismo (o giudaismo) è visto come l’elemento corruttore del processo sociale, laddove quest’ultimo dovrebbe invece ispirarsi alle ‘naturali’ gerarchie di cui il mito della purezza etnica ne è fondamento. Più che chiedersi se la destra radicale sia antisemita, e in quale e quanta proporzione, è quindi meglio domandarsi come lo sia, usando essa il pregiudizio antisemitico come una garanzia di critica al ‘sistema’, con una discreta dose di opportunismo, dettato dal bisogno di non creare eccessivo clamore su di sé. Il nesso antisionismo-antisemitismo sarà tuttavia il vero orizzonte su cui i movimenti radicali, ma anche il pulviscolo rosso-bruno, si daranno sempre di più delle coordinate geopolitiche così come culturali innovative. Ciò vale già per i cosiddetti ‘nazionalisti rivoluzionari’ e i ‘nazionalbolscevichi’ (gli ‘eurasisti’) che ruotano intorno alle teorizzazioni di Aleksandr Dugin e Jean Thiriart. Il campo rosso-bruno, che coniuga sovranità nazionale a ‘lotta per gli oppressi’, nazionalismo a comunitarismo, è già divenuto il terreno prediletto dalla destra radicale europea. I temi del signoraggio bancario, dell’anti-europeismo e dell”antisionismo’, insieme alla promessa di una rivincita degli esclusi, potrebbero confluire in una piattaforma politica di ben più ampio respiro rispetto a quella attuale. La transizione è quindi in atto e troverà negli esiti irrisolti del conflitto israelo-palestinese, così come nel mutamento socio-demografico in corso nel Mediterraneo del pari al declino dell’Unione europea, dei punti qualificanti per rilanciare l’idea di un possibile Ancien Régime, sotto le spoglie di un ‘nuovo ordine’.