Fonte:
Moked.it - The Times of Israel
Autore:
Rossella Tercatin
A Milano, tra i rifugiati siriani
Sono stanchi, ma con la luce negli occhi di chi attorno a sé non vede più guerra, ma colorati disegni di bambini e borse arancioni piene di articoli da toilette per alleviare i lunghi giorni trascorsi in viaggio. Al presidio di accoglienza migranti presso la stazione centrale di Milano che il Comune ha affidato alla gestione della onlus Arca, l’atmosfera è indaffarata ma positiva. In decine si mettono in fila, si registrano (a ciascuno viene dato un bigliettino con nome, provenienza e membri dell’eventuale nucleo familiare) e aspettano di essere smistati nei vari centri per passare la notte approntati in città.
Seduti sulle sedie di plastica verde, i rifugiati siriani accettano di parlare con una giornalista, anche quando l’argomento di conversazione si fa spinoso: Israele. Che nonostante tutto ciò che hanno visto e patito a opera della loro stessa gente, rimane il nemico numero uno.
“Israele è una potenza coloniale, non c’è altro da dire” spiegano Imad e Inaia, circa sessant’anni, lei con indosso un lungo vestito tradizionale nero e un hijab bianco “Per la religione ebraica invece nutriamo il massimo rispetto”. I figli ventenni annuiscono. È Mais a raccontare la loro esperienza. “La nostra casa a Idlib è stata bombardata tre volte, la strada che io e mio fratello percorrevamo per andare all’università non esiste più. In Siria avevamo degli amici, una vita. Ma siamo stati costretti a fuggire, non c’era futuro”. Prima di arrivare in Europa, la famiglia ha tentato di ricominciare in Egitto. “Non volevamo venire qui, ci tenevamo a stare in un altro paese arabo, ma ci hanno trattati malissimo, non potevamo lavorare, non potevamo fare nulla” spiega Imad. “Così qualche giorno fa abbiamo deciso di partire di nuovo”.
Nelle loro testimonianze, emerge la carneficina messa in atto dal regime di Damasco, dai propri concittadini, e la crudeltà degli scafisti libici che hanno trasformato la traversata della speranza in un viaggio dall’odore di morte. Ma è Israele il nemico per antonomasia. A spiegarlo è Adman, 21 anni. “Io rispetto tutte le religioni, in Siria ci sono tanti gruppi diversi, siamo tutti fratelli, ma Israele è il nemico per eccellenza. È questo che ci insegnano sin da bambini” sottolinea “Anche se è importante dire che quanto parlo di nemici, io mi riferisco ai sionisti, non agli ebrei”.
Poi Adman si interrompe. “Un momento, tu sei ebrea?” chiede a chi scrive. “Sì”. Il ragazzo sussulta. “Wow, sto quasi tremando, non ho mai conosciuto un ebreo prima d’ora”.
È curioso, fa domande, non ha mai sentito parlare del fatto che Israele (così come tante organizzazioni ebraiche) si interroga su come aiutare i siriani stritolati dalla guerra civile, né dell’ospedale da campo di Tzahal che a pochi passi dal confine cura i pazienti provenienti da nord. È sorpreso, interessato. Ma mi consiglia di non svelare agli altri rifugiati di essere ebrea. “Qualcuno potrebbe reagire male” mi avverte.
Disponibile a fare una chiacchierata è anche Rima, che lavora per l’Arca e insieme ai suoi colleghi gestisce il presidio, traduce, registra, scherza con i migranti rispondendo alle loro domande e aiutandoli come possibile. La giovane, 28 anni, è arrivata in Italia dalla Siria nel 2004. Nel 2009 per via della crisi economica, la famiglia aveva deciso di ritrasferirsi in patria, ma con l’inizio della guerra, torna a Milano.
“Nel conflitto ho perso uno zio, alcuni cugini, un nipotino appena nato. Per questo lavorare in questo centro è così importante per me, è ciò che posso fare per la mia gente. Il loro dolore è anche il mio” spiega.
Quando capisce il mio interesse per la sua opinione su Israele, sgrana gli occhi, ma non si sottrae. “Per i siriani, Israele è territorio palestinese, e i palestinesi sono nostri parenti, amici, vicini, anche perché molti di loro fuggirono in Siria, compresa mia nonna paterna, che scappò da Haifa nel 1948”.
Anche Rima insiste sul distinguere fra Israele e la religione ebraica. “È scritto anche nel Corano, dobbiamo rispettare gli ebrei”.
Poiché uno dei centri di accoglienza in cui ogni sera vengono inviati i profughi è allestito presso il Memoriale della Shoah di Milano, lontano solo poche centinaia di metri, è inevitabile che quanto accadde durante la seconda guerra mondiale sia parte della conversazione.
“Quando andavo a scuola in Italia ho studiato l’Olocausto, è stata una cosa terribile. Ho sempre preso parte alle cerimonie per il Giorno della Memoria, e ho cercato di scoprire qualcosa di più, per esempio guardando film sull’argomento, come ‘Il pianista’. Sui libri di testo siriani invece ci sono solo un paio di righe” sottolinea Rima.
Quando però le chiedo se sarebbe disponibile a esplorare punti di vista diversi sulla questione mediorientale mi risponde laconicamente “Penso di no, non leggo molto”.
E una reazione simile viene fuori quando le viene prospettata la possibilità che si arrivi a una soluzione di due stati per i due popoli per mettere fine al conflitto.
“Non penso che gli ebrei debbano avere un paese, sono una religione, non un popolo. Possono essere ebrei tedeschi, ebrei siriani, ebrei italiani. Ma non penso che uno stato ebraico abbia alcuna ragione di esistere”.