Fonte:
la Repubblica
Autore:
Carlo Bonini
I duri della destra che soffiano sul fuoco “Ecco perché cercano l’incidente”
Da un anno a questa parte dietro ogni rogo che si accende nella capitale ci sono loro
ROMA. Non c’è nulla di spontaneo nel giorno da cani di Casale san Nicola, né nella carne da cannone offerta alle cariche della Celere a beneficio di telecamere («Semo italiani come voi!», «Anche tu c’hai ‘na moje e’na famija! »). Perché non è la prima rappresentazione. E perché non sarà l’ultima. Perché le sue stimmate — la tartaruga nera e i caschi integrali di CasaPound — i suoi volti (Simone Di Stefano, che di Casa Pound è vicepresidente, come il suo spicciafaccende Mauro Antonini ) e soprattutto il canovaccio e la messa in scena delle sue parole d’ordine — «Gli Italiani per primi. (variante dell’originale ‘ Padroni a casa nostra’ ), sono il format di una Fabbrica dell’Odio battezzata esattamente un anno fa — sabato 14 luglio 2014 — nel corteo che attraversò il quartiere Esquilino, a Roma ( dove CasaPound ha la sua sede) e che fu Epifania dell’abbraccio tra i fascisti di Gianluca Iannone e la Lega Nord della coppia Borghezio-Salvini. Dodici mesi fa, una marcia per un generico “cartello’ «contro gli immigrati». Dal febbraio scorso, patto politico organico all’ombra delle tre spighe (“No euro” , “stop immigrati”, “Prima gli Italiani”), simbolo della neonata sigla “Sovranità”, creatura che di Salvini è stampella e di Casa Pound succursale. Luglio 2014, luglio 2015. I piccoli e grandi fuochi di cui si è accesa Roma in questi dodici mesi hanno la cadenza, le modalità e i luoghi propri di una pianificazione certosina. Dove le borgate dell’aerea metropolitana, sollecitate e accompagnate alla ‘rivolta” contro i centri di accoglienza per immigrati, non sono semplicemente luoghi da liberare dai ‘Negri‘ e restituire agli ‘Italiani‘, ma la mappa di un Risiko della paura dagli immediati dividendi politici ( e non solo, come vedremo). Una leva. Un pretesto. Una pentola a pressione sotto la quale non deve mai essere spento il fuoco. In principio, fu la “rivolta di Settecamini”. Poi toccò a Torre Angela, Ponte di Nona, Corcolle, Tor Sapienza, Infernetto, Tor Pignattara. In una sequenza che, ogni volta, si ripropone identica a sé stessa. Sulla scena — proprio come ieri a Casale san Nicola — si muovono “Comitati di quartiere” di cui CasaPound è il ventriloquo. Spuntano come funghi e, negli ultimi sei mesi dei 2014, si arriva a contarne 60. Invariabilmente professano di non essere «né di destra, né di sinistra». Di fatto, non ce ne è uno che non abbia come suo capo bastone qualche vecchio arnese della fascisteria romana, piuttosto che militanti di Forza Nuova. E, altrettanto invariabilmente, «l’incidente» che ne innesca la rivolta è regolarmente opaco nelle dinamiche ( le aggressioni a Tor Sapienza, piuttosto che gli asseriti assalti agli autobus a Corcolle, i “raid Rom” di Torre Vecchia) e certamente sproporzionato rispetto alla reazione. Una qualificata fonte investigativa del Ros dei carabinieri — dove ormai, dopo cinque anni di indagini, esiste un’enciclopedia su CasaPound — spiega: «La regia nella cosiddetta rivolta delle borgate contro i centri di assistenza agli immigrati ha un tratto evidente. Cercare l’incidente. Se necessario, provocarlo, certamente ingigantirne la portata. La logica è quella di mantenere costante la tensione e sfruttare la potenzialità manipolatorie dello strumento mediatico». C’è di più. Nelle retrovie della campagna di odio di CasaPound e di Salvini, protetti dalla maschera posticcia dei “Comitati di quartiere” e la loro «lotta agli immigrati», si muovono, almeno fino a quando sono stati in grado di farlo, tre figure chiave della destra “politica” romana che dicono molto del doppio fondo della “rivolta”. Gianni Alemanno, Luca Gramazio, Giordano Tredicine ( per dirne una, partecipano nel novembre scorso alla “marcia delle Periferie sul Campidoglio” ). Colpiti tutti e tre dall’inchiesta “Mafia Capitale”, lavorano — per quanto ha sin qui documentato la Procura di Roma — per l’associazione mafiosa di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati il cui core business, guarda un po’, è proprio l’accoglienza dei migranti. In piazza, crocefiggono la nuova giunta Marino per le politiche e i costi dell’accoglienza e soffiano sulla rivolta identitaria che, di fatto, costringe il governo e il prefetto della città a un’affannosa e costosissima rincorsa a nuove sistemazioni per i migranti. In privato, si fanno strumento del cartello (La 29 giugno di Buzzi e la Cascina ) che ha il monopolio della gestione dei centri di accoglienza e dunque tratta in posizione di forza tariffe e quote. Chiosa uno degli investigatori dell’inchiesta “Mafia Capitale”: «Diciamo che se la città comincia a bruciare di rivolte contro gli immigrati, chi dà le carte nel mercato dell’accoglienza è in posizione di forza. Perché offre una soluzione a un’emergenza. Diciamo che il problema è dunque chi ha creato artificialmente quell’emergenza e cosa vuole davvero. Solo Roma ai romani?».