Fonte:
la Stampa
Autore:
Vittorio Zagrebelsky
Così il Senato sdogana il razzismo
II razzismo è al bando in Europa. Lo vieta la nostra Costituzione, come lo vietano le dichiarazioni dei diritti fondamentali in Europa, cui anche l’Italia è legata. La condanna del razzismo, in tutte le sue forme, fa parte del nocciolo duro dell’identità culturale e morale d’Europa. In Italia poi v’è un motivo specifico per essere ipersensibili e vigilanti, dal momento che abbiamo prodotto le non dimenticate leggi razziali. Eppure vi è molta tolleranza rispetto al razzismo. Atteggiamenti ed espressioni razziste si vedono in situazione di disagio sociale grave, in qualche modo connesso con la convivenza difficile con persone e gruppi di origine etnica diversa, come in certe periferie urbane. Quegli atteggiamenti sono da respingere, come quelli frutto di grossolanità e incultura che si vedono nelle curve degli stadi. Ma che dire quando il razzismo ostentato e compiaciuto, irresponsabilmente sorridente è mostrato da chi ha responsabilità politiche e un rilevante ruolo pubblico? La Costituzione e la legge condannano il razzismo, in modo che esso non rientra nella libertà di espressione. Tanto meno il razzismo è tollerabile quando chi se ne fa portavoce, per la posizione pubblica che riveste, ha influenza e eco nella società. Il senatore Calderoli, vice presidente del Senato, nel corso di un comizio, ha paragonato a un orango Cécile Kyenge, medico italiano di origine congolese, all’epoca ministro dell’Integrazione. Un evidente insulto razzista, privo di qualunque connessione con le posizioni politiche da essa difese, che legittimamente un avversario politico poteva criticare. Un insulto per l’aspetto, il colore, la nascita: razzista, appunto. Anche in Italia un simile insulto è punito come reato. Ma i parlamentari, come stabilisce la Costituzione, non rispondono delle opinioni espresse nell’esercizio della loro funzione. Se dunque il senatore Calderoli si fosse espresso in quei termini insultanti nell’esercizio delle sue funzioni parlamentari, egli sarebbe non punibile. Ed è proprio questa la conclusione cui è arrivata la maggioranza della Giunta delle immunità del Senato, all’esito di una discussione in cui si è visto richiamato il diritto di usare espressioni anche aspre nel dibattito politico, si è menzionato il diritto di satira e perfino si è arrivati a dire che «spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose» (sen. Cucca, Pd). E per escludere che le parole del senatore Calderoli siano offensive, si è sottolineato che non vi è una querela della vittima. La dignità personale della ministra Kyenge, che ha ritenuto che un’offesa razzista riguardi la comunità nazionale tutta e non la sua sola persona, è stata utilizzata per proteggere l’offensore. E dunque si tratterebbe di lecita critica politica. Naturalmente questa è una decisione politica, su cui hanno pesato considerazioni di interesse politico. Infatti è stata richiamata l’importanza della funzione svolta dal senatore Calderoli (con cui evidentemente è meglio aver buoni rapporti). Ma la naturale politicità della decisione non chiude il discorso; anzi impone di chiedersi quale politica sia quella che, per esigenze di rapporti politici in Parlamento, chiude gli occhi sul razzismo. La Giunta delle immunità avrebbe dovuto valutare se si era trattato di esercizio delle funzioni parlamentari, poiché l’insindacabilità delle opinioni dei membri del Parlamento non riguarda genericamente l’ambito della attività politica. Sia la Corte Costituzionale, sia la Corte europea dei diritti umani hanno più volte ritenuto che la prassi del Parlamento italiano di coprire ogni genere di attività politica sia esorbitante e inaccettabile rispetto alla esigenza di riconoscere i diritti altrui. E’ facile quindi che, se il Senato approverà la proposta della Giunta, la Corte Costituzionale sia chiamata ad annullarla come contraria alla Costituzione. Ma anche di questa questione la Giunta non si è data cura. La volgarità del lessico di tanti politici è da tempo divenuta abituale in Italia. Si tratta di un abbrutimento della dialettica politica, che naturalmente non resta in patria, ma fa subito il giro del mondo, contribuendo anch’esso allo svilimento dell’opinione internazionale sull’Italia. Tanto che qualche anno fa, per certe espressioni del ministro dell’Interno Maroni contro i Rom, intervenne il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, preoccupato per l’effetto che certi discorsi, certo linguaggio tenuto da responsabili politici hanno sulla formazione dell’opinione pubblica, stimolando e legittimando atteggiamenti razzisti. Il razzismo ostentato con ingiurie rivolte a responsabili politici, diversi dalla maggioranza per origine o colore, non è solo un fatto italiano. Ma qui è tollerato e addirittura nobilitato come legittima manifestazione della funzione parlamentare. La Francia, prima dell’Italia, ha visto ministri che sono stati insultati non per la loro posizione politica, ma per la loro origine. Ora vittima degli stessi insulti è la ministra della giustizia Christiane Toubira. Ma in Francia non si crede che l’insulto razzista rientri nella libertà di espressione. E non si fermano i giudici, poiché sono offesi i valori fondamentali della Repubblica. Che, come anche il Senato dovrebbe credere, sono gli stessi della nostra Repubblica.