1 Gennaio 2015

Vietato l’ingresso. Passato e presente dell’esclusione sociale. Dialogo tra comunità ebraica e comunità rom a Roma

Fonte:

Associazione 21 luglio - www.21luglio.org

PREFAZIONE

di Luca Bravi Università Leonardo Da Vinci, Chieti

Campi nomadi e campi di concentramento. Una storia di oggi.

Esiste un “Vietato l’ingresso agli zingari” perché esiste un luogo recintato che si chiama “campo nomadi” dove si presume debbano essere messi tutti quelli che la cultura maggioritaria riconosce come “gli zingari”; in alcuni casi si va anche oltre, si pensa che quei luoghi siano voluti dagli stessi rom e sinti e dunque dovrebbe bastare la costruzione di un campo a garantirsi uno “zingaro” immaginario che disegniamo addirittura felice di vivere in simili ghetti. “Noi costruiamo, noi vietiamo, noi permettiamo o meno di vivere in un certo luogo” e la forma-campo serve a rendere concreta questa differenziazione di ruoli, di accesso al potere ed agli spazi di vita. La forma-campo è in realtà figlia di un dispositivo pedagogico implicito che dai luoghi della rieducazione si è diffuso all’interno delle politiche sociali e delle strategie abitative. Il campo infatti non è altro che il posto dove ammassare la gente valutata “in eccesso” (un eccesso che indica soprattutto il fatto di considerarla strutturalmente inadatta a vivere accanto a noi). Ma la parola “campo” inquieta da quando questo termine ha conosciuto l’accezione del “campo di concentramento” e del “campo di sterminio” ed allora, dalla seconda metà del Novecento, il “campo” continua ad essere comunque utilizzato purché si nasconda la testa sotto la sabbia dicendo che quel luogo è un posto transitorio in attesa di un’inclusione effettiva che mai arriva, come mai arriva il pieno accesso alla città. L’attesa viene giustificata da progetti rieducativi che dovrebbero cambiare gruppi descritti come “asociali” in gruppi in grado socializzare, ma in realtà il ghetto creato è già l’immagine dell’esclusione che continua ad incentivare (la progettazione nel campo porta proventi soltanto a chi dall’esterno lo amministra, come dimostrano i recenti fatti di Roma): lontano dal centro, privo dei servizi, sovrappopolato da soggetti segnati dalla stessa stigmate del “diverso”. Il campo effettivamente insegna qualcosa: a chi ne sta fuori insegna a costruire o confermare stereotipi massificanti da gettare sugli abitanti, a chi sta dentro, ad auto-percepirsi come diversi. In definitiva s’innalza il grado di conflittualità. Pochi lo sanno, ma si tratta di una storia che si ripete. Allo strutturarsi degli Stati-nazione in Europa s’innalzò progressivamente anche il grado di antiziganismo, proprio per il fatto che i rom ed i sinti, visti come non cittadini perché classificati come “nomadi”, furono percepiti come un gruppo “asociale”, un tipico outgroup (diventando anche un utile capro espiatorio). Le politiche d’inclusione forzata attuate per la prima volta durante il regno di Maria Teresa d’Austria e di Giuseppe II parlavano già il linguaggio della rieducazione coatta; ne scaturì un etnocidio con rom e sinti obbligati ad abbandonare lingua, usi e costumi. Tale vicenda ha confermato però anche l’immagine del popolo rom come “popolo-resistenza”, così come lo ha descritto Henriette Asséo, un gruppo in grado di opporre una strenua resistenza di basso profilo alla pressione esterna all’omologazione. È questo tratto di popolo-resistenza che nel Novecento portò gli scienziati della razza ad indicare come inutile qualsiasi tentativo di approccio al popolo rom, perché segnato a livello razziale da tare ereditarie inestirpabili, tra le quali l’istinto al nomadismo e l’asocialità. Si apriva la strada che ha portato rom e sinti insieme agli ebrei ed alle altre categorie di deportati verso il più noto dei campi di concentramento e di sterminio, quello di Auschwitz. Si era passati dall’etnocidio al genocidio, attraverso lo strumento della pratica rieducativa.

Nel post-Auschwitz, la tenuta a distanza di rom e sinti è proseguita insistendo su caratteristiche di “asocialità” e di “nomadismo” che sono scientificamente infondate, ma che hanno permesso di far permanere lo stereotipo massificante. La colpa della “razza” si è trasformata in una più accettabile colpa “culturale” e sulla base di queste teorizzazioni diffuse negli anni sessanta da Hermann Arnold (uno studioso fortemente legato alle teorie razziali naziste rispetto a rom e sinti, considerato un esperto in materia anche dopo la guerra) ha preso forma la strada che ha portato all’istituzione in Italia di “classi speciali per nomadi” (per rieducarli) e alla costruzione di nuovi campi, non più di concentramento, ma “campi nomadi”, i luoghi in cui attendere il tempo dell’inclusione, che si è rivelato tempo infinito, battuto sempre da altri e mai da rom e sinti. Ed allora cosa ci dice il cartello “Divieto d’ingresso agli zingari!” esposto a Roma nel terzo millennio? Testimonia che non c’è alcun fossato che oggi ci separa dalla logica che portò alla realizzazione di Auschwitz e che le premesse di quel percorso sono tuttora presenti nella società attuale. Il 27 gennaio sarà di nuovo il Giorno della Memoria: narrare il Porrajmos a fianco della Shoah può rappresentare oggi la scintilla per costruire quegli spazi d’incontro necessari ad un’inclusione condivisa e paritaria. Lo ricorderemo ancora in nome di una Memoria da rendere viva ed attuale, ma tutto questo dovrà tradursi nel concreto superamento dei campi di oggi, perché i cartelli dell’odio scompaiano davvero e definitivamente dalle nostre città